Spopolano all’estero e ora, con una ritrovata libertà creativa, puntano alla loro Italia: la nostra intervista a Giolì&Assia.

Un viaggio intorno al mondo partito però dalla Sicilia per poi tornare a casa: Giolì&Assia, soprattutto all’estero, non hanno bisogno di presentazioni: la loro musica è arrivata in ogni angolo del pianeta – dall’America all’Asia, passando per il Sud America – grazie a una contaminazione che parte dai suoni strumentali per arricchirsi con l’elettronica. Il loro ultimo singolo – Young Forever – è tuttavia un ritorno alle radici: un brano in inglese nato sotto la stella della libertà artistica, ricco di riferimenti spirituali e mistici. La nostra intervista a Giolì&Assia.

In che senso Young Forever è per voi un ritorno alle origini?
«Abbiamo finalmente recuperato le nostre radici, la nostra etichetta. Siamo tornate a essere indipendenti e quindi padrone totalmente della nostra creatività. Young Forever non è un brano semplice, è un po’ complesso perché parte in un modo che non preannuncia che stai per essere travolto dal drop. La definiamo una ballad romantica, però poi ha un drop molto elettronico e alternativo. Il testo parla dell’incertezza della vita, di quelle domande che accomunano un po’ tutti. Che senso ha la mia vita? Devo affidarmi completamente al destino? Parafrasando il testo, parliamo di tarocchi e cartomanti: se non conosciamo il nostro destino, dovremmo affidarci a chi sa leggere le carte o alla religiosità. Invece poi il punto di svolta arriva con la consapevolezza che con l’amore possiamo essere giovani per sempre. L’unica certezza è l’amore, che ci rende eterni».

A me il drop è piaciuto molto: sembra che a un certo punto la canzone abbia vita propria. 
«È alternativa anche come struttura e costruzione. In un mondo in cui tutti vogliono tutto in 2 minuti e 10, il drop arriva dopo 2 minuti. Devi avere la pazienza di arrivarci e di essere travolto».

È musica che non accontenta l’ascoltatore mainstream, ma lo invita piuttosto all’esplorazione.
«Siamo così, viviamo di musica perché non sappiamo fare altro. È la nostra passione più grande, quindi non ci interessa tagliare l’intro o il drop perché la gente non ha pazienza. A noi piace creare senza limiti, così come dare un’emozione. Siamo contente di essere tornate indipendenti perché possiamo letteralmente fare ciò che ci piace».

Giolì&Assia: l’elettronica in Italia e all’estero

Siete famosissime fuori dall’Italia, mentre qui la musica elettronica è considerata ancora di nicchia. Come mai secondo voi?
«L’Italia è trend setter e sempre avanti ma, nello stesso tempo, musicalmente secondo noi è un po’ chiusa. A noi interessa perché da italiane ci fa piacere riuscire a essere riconosciute anche qui, ma è innegabile che all’estero abbiamo più riscontro. Forse c’è più cultura e anche più apertura mentale da parte di diverse generazioni. Quando suoniamo negli USA, i fan hanno la nostra età, ma anche 60 anni. E ci sono famiglie con bambini: il pubblico è molto vario e fa capire che la cultura musicale all’estero è molto più ampia».

È una questione culturale?
«Diciamo che l’America è il nostro principale mercato perché è stato il primo paese a lanciare il genere elettronico. In Italia adesso è un bel periodo in generale per la musica italiana, forse questo è l’handicap ora per noi. Ci sono però alcuni movimenti interessanti nella dance, è una sorta di crescita da entrambi i lati. Per un certo tipo di musica bisogna anche educare il pubblico e avere la pazienza di portarti poi nel nostro mondo».

Ne soffrite un po’?
«Siamo nate qua, ma non abbiamo mai avuto intenzione di limitare il nostro pubblico all’Italia. Fin da quando ci siamo conosciute, entrambe volevamo scrivere in inglese e in questo ci è stata molto utile Elisa per esempio. Entrambe da piccole la ascoltavamo e conoscevamo i suoi brani italiani quanto quelli in inglese. Forse c’è stata una chiusura da parte dei discografici italiani pensando che al pubblico italiano non piacesse chi canta in inglese. In realtà non è vero. Anche non capendola, abbiamo sempre cantato Elisa, gli U2, gli AC/DC. Elisa però è una perla rara».

Come mai la considerate un punto di riferimento?
«Ha portato una ventata di diversità nel mercato italiano. In quel caso puoi essere capito o meno. I generi però vanno e vengono negli anni e hanno sempre il loro momento. Magari anche il nostro arriverà, un po’ più tardi… Più che altro è una decisione discografica, ma il pubblico non rifiuterebbe musica diversa. Abbiamo tanti fan italiani che, durante il tour europeo, non avendo date italiane sono venuti all’estero a sentirci. I nostri agenti sono americani, ma siamo speranzose e amiamo la nostra nazione. Infatti viviamo qua. L’Italia è molto forte forse in termini underground, pensa ai Tale of us o a Carla. Se si parla però di elettronica dance o di elettropop è più difficile, è un genere ancora da esplorare. All’estero ci sono i Rüfüs Du Sol e altri che sono già instradati».

La scelta di scrivere in inglese non riguarda anche la musicalità dei brani? Chiedo perché nei vostri pezzi la voce è quasi un ulteriore strumento musicale.
«Sì, ormai abbiamo il problema opposto. Quando abbiamo provato a scrivere in italiano, abbiamo capito che ormai per noi è più complicato. Non è più naturale, è come un alter ego. Siamo di madrelingua italiana e quindi vogliamo scrivere testi in italiano di un certo tipo. In inglese esprimi concetti complicati con parole semplici, mentre non vogliamo creare testi banali in italiano. Lo faremo un giorno, ma richiede più tempo». 

A proposito di musica, lo strumento nella vostra produzione è fondamentale. Come lavorate e cercate sempre di non cancellare il suono originale con l’elettronica?
«Il nostro progetto è molto musicale perché suoniamo molti strumenti. Vogliamo farli trasparire e vederli live, che è poi la nostra forza. Ultimamente stiamo cercando di usare suoni più elettronici e nuovi per un gusto personale, ma tutti i brani nascono piano e voce. Solo dopo costruiamo il resto. Un ruolo importante lo gioca anche la curiosità personale, mentre a volte funziona anche al contrario: c’è un suono che ci ispira, una drum o un synth e facciamo prima la base costruendo un bel drop. Dopo buttiamo giù le melodie e i testi».

Avete pubblicato sui social alcuni brani in acustico, tra l’altro.
«L’acustico piace molto al fan perché vede la parte più pura della canzone. Ormai ci chiedono di rilasciare anche una versione più spoglia. Noi partiamo da versioni molto pop e poi le convertiamo in dance music perché live funziona meglio ed è più potente».

E l’idea di una vostra linea di handpan da dove nasce?
«Da 5 anni facciamo un uso continuo e intenso di questo strumento che ci ha sempre affascinato. È visto spesso come un oggetto per la meditazione e, quando non sai come approcciarti a uno strumento, devi capire anche cosa è abituato a sentire l’ascoltatore. Quando abbiamo iniziato a usarlo, Giorgia ci ha associato la beat machine. Vedere questo strumento di solito associato alla ninna nanna insieme a un beat elettronico dance ha fatto incuriosire tutti. Il nostro primo video con l’handpan diventò virale su Facebook. Un anno e mezzo dopo è successo lo stesso anche con i video su YouTube. Era uno strumento che incuriosiva molto e, dopo tutto questo percorso e averne provati centinaia, abbiamo deciso di fare il nostro».

Ora possiamo dire che lo padroneggiate.
«I nostri brani sono tutti in Si minore. È difficile anche spiegare ai fan che, se vogliono suonare le nostre canzoni, devono trovare quell’handpan specifico. Ne abbiamo creato uno noi in Si minore, così lo compri e puoi suonare le nostre canzoni. E pensa che era partito tutto dalla decisione di facilitare il tour, altrimenti avremmo dovuto viaggiare con sette handpan e non era fattibile. Ogni volta che lo usiamo ora proviamo a usare la stessa scala, così ne portiamo solo uno. Ed è utile per i fan perché è semplice replicare i nostri brani. Cerchiamo di fidelizzare la nostra community e unire le varie nazioni».

Nasce quindi anche da una richiesta precisa della community.
«Ci chiedono spesso quali handpan comprare. Dopo averne provati tanti, abbiamo deciso di fare un prodotto che per noi è il livello massimo di qualità e, soprattutto, è made in Italy. Li produce un’azienda italiana con cui abbiamo studiato insieme i materiali e il design. Faranno questa linea in bianco e nero che ci rappresenta e saranno sempre disponibili. Sarà bello fare anche dei video su come usarli perché la gente spesso li suona a caso».

L’importanza del live

In tutto ciò, è obbligatorio chiedervi quanto conta per voi la dimensione live.
«Abbiamo suonato ovunque e per noi è fondamentale perché parte tutto da lì. Ogni volta che abbiamo iniziato un progetto, un album – anche l’ultimo Fire Hell And Holy Water – è partito tutto dal tour antecedente. Ci chiediamo cosa non ci è piaciuto, cosa possiamo migliorare. Young Forever è nato tutto al pianoforte, così come l’EP che uscirà. Sono brani che puntano molto sul live, perché alla gente piace relazionarsi, è curiosa di vedere cosa succede sul palco. Siamo fan di band elettroniche come gli Odesza: siamo state al loro live e siamo rimaste affascinate dal loro tipo di comunicazione. Ci sono artisti che comunicano più con gli streaming e non sono interessati ai live. Per noi, invece, il live è la ciliegina sulla torta. Lavoriamo musicalmente in studio affinché nell’esperienza live tutto renda bene».

È quasi un approccio old school
«Se fossimo nate in un altro periodo, saremmo semplicemente una band. La musica elettronica ci ha influenzato molto e ci piace essere anche DJ, ma nel futuro vogliamo essere una band, un progetto live che fa anche DJ-set come i Rüfüs Du Sol».

Dell’EP cosa potete anticiparmi?
«È la nostra nuova era, l’abbiamo chiamata Resurrection. Uscirà un primo EP a marzo e farà parte di un progetto più ampio, un world tour che parte a settembre. Da lì si svilupperanno altre cose con costanza musicale non indifferente».

Sarà un 2024 impegnativo…
«Abbiamo un po’ di brani e farli finalmente uscire è liberatorio. Anche se lo sappiamo da subito se stiamo cambiando il nostro sound. Se un pezzo ci piace, ci piacerà per sempre. Vogliamo produrre brani che per noi sono eterni e che, se saliamo sul palco tra 10 anni, non ci cade la faccia a suonarli. Restiamo autentiche. È capitato in major che ci dicessero di fare pezzi dance o commerciali, ma a quel punto lo fai per contentino anche se non ti identifichi. Per noi è importante amare un brano e che sia autentico. Dobbiamo essere in primis fan di noi stesse e noi abbiamo lavorato duramente per esserlo. Non ci interessa del resto: se viene siamo contente, ma la nostra crescita e carriera devono essere fondate sull’apprezzamento della nostra stessa musica. Dobbiamo essere orgogliose di suonare i nostri brani».

Anche perché altrimenti è la fotografia del contesto discografico e non di un artista.
«Purtroppo ormai la musica è un fast food. Ha standard, lunghezze, struttura. Noi abbiamo influenze di un certo tipo. Da qui nasce la parte live, perché quando la gente sceglie di pagare il biglietto e ascoltarti vuole vedere la tua visione della musica. Sul palco puoi fare quello che vuoi e rendere partecipe il pubblico del tuo sogno».

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