Gli spazi di Tenoha Milano hanno ospitato un seminario dedicato alla produzione artigianale del sake, che a breve diventerà patrimonio culturale immateriale dell’UNESCO. Quali sono le sfide?

loading

Prossimo a diventare patrimonio culturale immateriale dell’UNESCO, il sake sta al Giappone almeno quanto il vino all’Italia. Impossibile, infatti, separarne la tradizione produttiva dalla storia e dalla localizzazione nella Terra del Sol Levante. E proprio come accade per ogni simbolo gastronomico la sfida è quella di conservarne l’artigianalità che lo ha reso iconico guardando allo stesso tempo all’innovazione e al futuro. È stato (anche) questo il tema affrontato nel corso di un seminario presso gli spazi di Tenoha Milano, in un incontro che ha restituito l’importanza culturale del sake sempre più attenzionato a livello mondiale.

Perché quando si parla di sapori e storia si parla anche di valori, e in questo il Giappone è maestro. Attenzione al dettaglio, cura nella selezione degli ingredienti di base e rispetto del tempo sono, infatti, alla base della produzione tradizionale della bevanda come del modo di vivere nipponico. Lo si riconosce immediatamente dal racconto di Daizo Nakashima, proprietario di quarta generazione della sakagura Chigo-no-iwa nella prefettura di Gifu.

Sake Tenoha
Foto da Ufficio Stampa

La sua fondazione è datata 1909, con una mission che mette al centro tre parole: tradizione, innovazione e continuità. “Nel mondo del sake siamo una realtà relativamente giovane, anche se abbiamo più di cent’anni. – spiega Nakashima – In Giappone, infatti, parliamo di circa 1600 aziende che producono sake e alcune hanno anche 800 anni di storia alle spalle”. Quindi, addentrandoci nella produzione, il kuramoto (così si chiama il produttore di sake) racconta i cardini della lavorazione del riso a partire dalla selezione del chicco.

La produzione tradizionale del sake

“C’è una regolarmente imposta dallo stato per poter usare il termine sake e la regola principale è che deve essere fatto da riso kome koji. Si tratta del riso zuccherificato dal koji (la muffa che noi conosciamo anche come aspergillus oryzae, ndr) con l’aggiunta di acqua”. Sul tipo di materia prima utilizzabile, invece, “le aziende possono spaziare nella scelta. Ci sono circa ottocento tipologie di riso con cui fare sake, ma il tipo di riso principale e più costoso è lo yamada”.

“Si possono usare prodotti da diverse regioni, per quanto la tendenza attuale sia quella di restare nella regione di lavorazione”, prosegue Nakashima. E nel caso della sakagura Chigo-no-iwa addirittura la produzione è interna all’azienda. “È qualcosa di peculiare – spiega – Abbiamo un’acqua con una durezza bassa, quindi è liscia e leggerissima”. Partendo, quindi, dal riso come ingrediente principale, questo viene lavorato in modo da avere maggiore aminoacidità e un sapore più profondo.

LEGGI ANCHE: — La vera storia di ‘Shōgun’ e del samurai inglese William Adams

Una fase particolarmente importante è quella in cui “interviene il koji che sviluppa enzimi capaci di spezzare l’amido in glucosio. È la base zuccherina a cui si aggiunge lievito per lo shubo, la ‘madre del sake’. Dopo alcuni giorni, diventa moromi che è la vera e propria base di fermentazione la cui temperatura deve essere controllata per mantenere l’equilibrio tra il lavoro del koji nella fermentazione e quello dello zucchero in alcol”. L’ultimo passaggio, infine, prevede la pressione e il filtraggio da cui si ottiene la bevanda cristallina che conosciamo.

Il sake: come innovare rispettando la tradizione?

In un processo così strutturato, è lecito chiedersi quale spazio possa avere l’innovazione e che forma possa assumere. Lo spiega, non a caso, una donna – Kayo Yoshida –, responsabile di quinta generazione della Umenoyado, nella prefettura di Nara. Con il motto “Essere una sakagura che crea una nuova cultura del sake”, la produttrice ha le idee piuttosto chiare e ha già introdotto più di una novità nel proprio lavoro a dimostrazione di un coraggio tutto al femminile.

Sake Tenoha
Foto da Ufficio Stampa

“Fondata 132 anni fa, vogliamo fare cose nuove – spiega Yoshida – tra le prime abbiamo dismesso il ruolo del toji e siamo l’unica sakagura del Giappone senza toji (colui che è a capo della gestione produttiva del sake, ndr). Al suo posto, abbiamo tre persone diverse che, insieme, danno lo stile al sake. Tra loro si è creata un’alchimia interna per cui sanno confrontarsi senza che nessuno voglia prevalere sull’altro.I giovani di oggi non vogliono imporsi sugli altri, ma c’è grande rispetto e coesione”.

Il nostro dovere è quello di mantenere in vita le tradizioni ma anche apportare novità nel sistema”, afferma ancora l’imprenditrice. “Il futuro? La cosa più importante è fare sake buono non facilitare il nostro lavoro con le macchine”, risponde. “Ci sono alcune fasi che devono essere fatte solo dall’uomo, il cui intervento è importante per la qualità finale. Per ora la meccanizzazione totale è impossibile. In futuro l’informatica e l’intelligenza artificiale potrebbero darci una mano e quindi sarà possibile sostituire alcune parti. Ma credo che alcune decisioni spetteranno sempre e solo all’uomo”.

Sake
Foto Shutterstock

Foto da Ufficio Stampa / Shutterstock