Abbiamo intervistato un’esperta di filantropia femminile e diritti di genere che ha fondato e dirige una fondazione a supporto del movimento femminista italiano. Dal 2016 al 2022 ha lavorato in Messico in diverse organizzazioni, specializzandosi nelle tematiche di giustizia sociale e ha collaborato come fundraiser, project manager e analista Mel (Mercato del lavoro, ndr) concentrandosi principalmente su progetti di femminismo, diritti delle donne e sviluppo sostenibile nelle popolazioni vulnerabili: è laureata in Scienze politiche con indirizzo alla Cooperazione e allo Sviluppo e ha, inoltre, conseguito un Master in Economia dello sviluppo presso l’Università di Wageningen (Paesi Bassi)

Miriam Mastria, un fondo femminista caratterizzato da un approccio originale e inedito, rispetto alle tradizionali fondazioni italiane: come nasce l’idea?

“Tutto nasce da una costatazione personale: il movimento femminista italiano è affaticato e ha pochi spazi e risorse per far sentire la sua voce. Quando qualche anno fa, lavorando per il fondo femminista messicano ‘Fondo Semillas’ e partecipando a eventi o conferenze internazionali sull’attivismo e l’agenda politica dei femminismi, mi rendevo conto tristemente che non vi erano presenti rappresentanti italiane e mi chiedevo quale fossero le ragioni di questa assenza. Soprattutto, in un Paese che, 50 anni fa, ha espresso una enorme ricchezza di elaborazioni teoriche e filosofiche ed è stato culla di un movimento che ha guidato una rivoluzione sociale senza precedenti. Mi capitava, infatti, di studiare i testi di Carla Lonzi o Silvia Federici, ma non di trovare femministe italiane a rappresentare il movimento contemporaneo. Inoltre, confrontandomi con le compagne attiviste sul territorio italiano, ascoltavo la loro frustrazione nel voler realizzare iniziative ed erogare servizi a supporto della comunità in ottica femminista e di genere, ma di non godere del supporto istituzionale o di vivere nel precariato dell’autofinanziamento. C’è da dire che la mia stessa decisione di sperimentare la pratica dell’attivismo femminista in Messico, era nata dalla difficoltà di accedere a iniziative femministe in un piccolo paese della provincia meridionale italiana. Partendo dall’Italia, sette anni fa, ho avuto modo di sperimentare la forza di un movimento femminista compatto, organico e integrato come quello messicano, che combatte una società violenta, misogina e maschilista. E al ‘cuore’ di questo, ho incontrato un modello di filantropia innovativo, che stava dando ottimi risultati nel rafforzamento del movimento femminista e nell’accellerazione del progresso di quel Paese in termini di uguaglianza di genere. Mi sono resa conto che il fondo femminista poteva forse essere la risposta anche per il contesto italiano, denso di teoria e significato storico, ma svuotato di risorse e, dunque, di forza politica. Viste le difficoltà e gli ostacoli che le mie compagne attraversavano e attraversano tuttora sui territori, mi son detta che non c’era più tempo da perdere e bisognava cominciare a far giungere fondi, risorse e opportunità a un movimento che, dal 2015, è rinato grazie a Nudm (Non una di meno, ndr), ma che non ha la forza di spingere l’agenda politica femminista in un contesto come quello italiano, che attenta ogni giorno i nostri diritti”.

L’esigenza di ‘policies’ e fondi strutturali trae origine non solo per contrastare la violenza di genere, ma anche e soprattutto per incentivare l’empowerment delle donne: perché se ne parla ancora poco?

“Purtroppo, nel nostro Paese la narrativa intorno alla violenza di genere ci ripropone troppo spesso l’idea di donne come soggette di protezione e difesa e non come soggette di diritti. Questa narrazione, che ci ritrae come vittime – anch’essa in essenza piuttosto patriarcale – fa purtroppo il gioco di un sistema in cui, se una donna conosce i propri diritti e le proprie libertà e alza la voce per farli rispettare, allora è percepita come inappropriata, aggressiva e finanche violenta, perché disturba lo ‘status quo’. È importante, quindi, che senza in alcun modo sminuire l’urgenza della risposta alla violenza di genere, si percepiscano le donne come soggette di diritti e si smetta di parlare di violenza di genere con toni ‘re-vittimizzanti’ o paternalistici. Inoltre, resta fondamentale parlare di autodeterminazione, perché le donne possano essere libere di vivere la propria vita come meglio credono, perché si rispettino tutte le soggettività e non si abbia bisogno di protezione e difesa, ma di rispetto e dignità umana. Credo che questa sia una delle chiavi culturali per contrastare veramente e alla radice la violenza di genere”.

Il fondo Semia abbraccia l’intersezionalità del movimento femminista in una direzione più inclusiva possibile, un alleato eccellente per lavorare seriamente su tutti i diritti di genere e per tuttə: è così?

“Certamente, Semia si ispira al femminismo della terza e quarta ondata proprio perché fa parte del movimento stesso e non vuole rimanere indietro rispetto a quelle che sono le necessità e le avanguardie della nostra società. Soprattutto si rispettano le posizioni del femminismo contemporaneo che rivendicano il rispetto e la libertà di tutt* coloro che si sentono sicur* nello spazio femminista. Parliamo quindi non solo di persone trans e non binarie, ma anche di comunità di donne* razzializzate, disabili, rifugiate e di tutte quelle persone che lottano contro il razzismo, l’abilismo o l’omolesbobitransfobia, e altre direttrici di discriminazione. Si vuole stimolare l’attenzione verso i diritti del lavoro delle donne* – per i quali siamo l’ultimo paese in Europa, ma anche evidenziare la prospettiva femminista all’interno del movimento ambientalista, il diritto alla casa, i diritti delle anziane e delle persone private della libertà. Proprio perché se sei donna* in qualsiasi ambito della società puoi sperimentare molteplici assi di discriminazione. Semia quindi vuole lavorare con tutte quelle realtà che guardano ai margini e trovano nel femminismo una via d’uscita, perché come diceva Bonaventura de Sousa Santos “le direttrici di discriminazione in questo mondo sono il patriarcato, il capitalismo e il colonialismo e la storia, così come l’epistemologia, vanno riscritte attraverso uno sforzo condiviso”.

Lei ha 30 anni e ha già un importante percorso di impegno e attivismo civico alle spalle: il suo più grande sogno?

“Beh, diciamo che lo sto già vivendo e sono ancora incredula del fatto che Semia, oggi, esista. Pensavo che questa fosse un’idea impossibile o uno di quei traguardi che avrei raggiunto a un passo dalla pensione. Invece, ho avuto la fortuna di incontrare altre attiviste e professioniste del terzo settore che hanno creduto in quest’idea e, insieme, l’abbiamo resa una realtà. Abbiamo convenuto che non si potesse aspettare oltre: i diritti delle donne, delle persone trans e non binarie soffrono, oggi, di un contesto che vuole farci retrocedere, in cui la stessa democrazia e libertà di vivere ed essere sono a rischio, dove la semplice rivendicazione di questi stessi diritti viene criminalizzata. Il sogno, oggi, è che Semia possa crescere in collaborazione con la filantropia istituzionale, ma anche con il supporto di tutt* coloro che condividono i suoi valori. Semia doveva nascere non solo per il presente, ma soprattutto per il futuro: per accompagnare le bambine, ragazze, le persone trans e quelle non binarie di questo Paese in un necessario processo di rivendicazione e autodeterminazione. Spero che Semia possa portare un vento di rinnovamento e di libertà per tutte e tutt*”.

Intervista di Vittorio Lussana