A cinque anni dal precedente progetto, Shade è tornato con l’album ‘Diversamente triste’ ed è in tour per tutta l’estate. L’intervista.

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Nell’epoca della musica ‘fast and furious’ da ingordigia del venerdì con decine di nuove uscite, cinque anni sono praticamente un’era geologica. Un tempo discografico infinito in cui, per un artista, il silenzio assume le sfaccettature più disparate. Alcune di queste Shade le ha volute declinare in musica in ‘Diversamente Triste‘, disco che ne segna il ritorno appunto a un lustro di distanza dal precedente ‘Truman’ (2018).

Disponibile in digitale e in formato fisico, il nuovo album dell’hit maker Shade è il primo targato Epic Records Italy/Sony Music Italy e si snoda tra rap e pop nello stile con cui l’artista ha imparato a farsi conoscere. La tracklist, del resto, la dice già molto a proposito dei terreni in cui Vito Ventura ha voluto muoversi con collaborazioni pescate dalle scena urban italiana, tra cui quelle con J-Ax, Vegas Jones e Giaime, MadMan, Dani Faiv e Nerone.

Shade
Foto di Mark Tampone da Ufficio Stampa Golin Italy

Partiamo riannodando i fili con ‘Truman’: che anni sono stati per te?
In questi cinque anni mi è successo un po’ di tutto: ci sono state perdite famigliari, di amici e un sacco di cose che ho potuto raccontare in questo disco. Ho scritto un centinaio di tracce ‘Truman’ a oggi, tra le quali ovviamente anche pezzi inutili di per se stessi ma utili se pensiamo al percorso che guardo io, ovvero sul lungo termine. Ho sempre preferito la maratona ai cento metri e a questo giro sentivo il bisogno di mettere dentro tante cose, anche episodi più ignoranti o rappusi. Sono contento di averlo fatto in un album, il supporto con cui sono cresciuto anche se oggi il formato album quasi non va più di moda.

Quindi, tenere in mano questo lavoro, adesso, che peso specifico ha?
Per me è importante chiaramente perché quando fai uscire un prodotto c’è sempre dentro una parte importante di te. L’ho sempre messa in tutti i miei lavori però in questa non mi sono proprio risparmiato. E c’è proprio tutto, anche quello che magari mi imbarazzava un po’ mettere perché sono episodi personali che scardinano l’idea dell’artista che deve farsi vedere felice, con l’outfit super figo e come modello vincente da seguire. Sbottonarsi in questo modo, a volte è controproducente. Ma sono sempre alla ricerca il più possibile della verità in quello che scrivo quindi ho dovuto farlo a maggior ragione dopo cinque anni. Non puoi tornare a raccontare bugie.

Del resto, anche attraverso la chiave dell’autoironia, non ti sei mai tirato indietro nel racconto di te stesso. Ma quando, dal tuo punto di vista, è stato controproducente?
Quando, guardandoti attorno, vedi che il successo di recente va più verso questi modelli da vincente a tutti i costi. Ci sono solo persone con un alto budget… cosa che poi mi fa sorridere perché quello che sembra il più ricco di tutti invece non lo è. Il concetto è che a me proprio quella roba lì non mi interessa, non me ne frega niente. E non è neanche quello che mi muove quando devo fare una scelta di lavoro, non è che vado da chi mi paga di più. È vero che i soldi sono importanti ma è altrettanto vero che non sono tutto e, negli anni, ho raggiunto una stabilità economica per cui ho la fortuna di potermi permettere di dire “questo preferisco non farlo”.

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Ma nel mondo di oggi, in generale, diventa controproducente farsi vedere come una persona fragile, che ha delle emozioni, dei sentimenti e che fallisce. Il fallimento non è una cosa tollerata nel 2023: vedo artisti andare primi in classifica e sei mesi dopo sparire completamente dai radar, diventare dei falliti. Ma sono persone e la gente spesso si dimentica che non sono degli oggetti.

C’è anche da aggiungere che l’aspetto da vincente non necessariamente corrisponde al vero.
Assolutamente. È come il sorriso della mia cover che suggella il senso del titolo. Sono visto come quello divertente, con la battuta pronta ma spesso è un sorriso stampato in faccia per far sorridere le persone attorno. Quello che vedono è un sorriso ma tante volte dietro si cela chissà quale stato d’animo negativo o di depressione. E credo che sia l’essenza di molte persone come me. Per quanto non consideri questo disco come un concept album, già il titolo svela un suo file rouge. Alterna tracce cupe e altre più up, ci sono  entrambi gli elementi che mi hanno caratterizzato da dieci anni a questa parte, quindi l’album ha una grande coerenza. È evocativo della vita che vivo tutti i giorni ma che viviamo tutti. Ogni puntata fa storia a se ma se le guardi insieme c’è un filo conduttore che le unisce tutte.

Da ‘Tuman’ a ‘Diversamente triste’: paure, solitudini e speranze di Shade

Che cosa hai temuto di più in questi cinque anni?
Se ho avuto paura? Di brutto. Ho vissuto momenti terribili anche legati a questioni burocratiche. Oggi cinque anni sono una vita però, alla fine, sono quelli che mi sono serviti per scrivere questo album e per-vivere le cose che ho raccontato in questo lavoro. È stato un periodo difficile, ma come canta qualcuno ‘dal letame nascono i fiori’.

Siamo soliti considerare la tristezza come una condizione piatta, uniforme, quasi monodimensionale. Qual è, invece, lo spessore che trovi nell’essere ‘diversamente triste’?
Ci sono diversi livelli. Chiaramente c’è quello più alto – la felicità, la presa bene, il voler condividere con gli amici delle storie divertenti o anche solo degli episodi di sano e ignorante rap. Era quello che facevamo quando eravamo più piccoli, senza pensare a classifiche, numeri eccetera. Allo stesso tempo, però, ci sono diversi livelli di tristezza: dai ritorni a casa mangiati dentro dalla malinconia, la mancanza di persone che non ci sono più, periodi di depressione in cui amare così tanto un lavoro può diventare una condanna per te stesso. Ci sono anche momenti in cui le cose non vanno bene e vieni un po’ abbandonato dalle persone che invece ti avevano detto di essere un porto sicuro per la tua vita.

Che rapporto hai con la solitudine?
Partiamo dal presupposto che io sto molto bene da solo. Non sono una persona che cerca la compagnia a tutti i costi. Molti hanno l’asfissia delle quattro mura ma io, quando la sera arrivo a casa, dopo una giornata di lavoro,  sto molto bene nelle mie quattro mura. A casa ho il mio studio, la Play, le mie serie tv. Sto da Dio. Senz’altro, mi piace passare del tempo con le persone a cui voglio bene ma la solitudine che mi ammazza di più è quella di quando sono in mezzo a tante persone e non mi sento capito. È lì che mi sento veramente solo, rispetto magari a quando sono da solo fisicamente, ed è la solitudine peggiore che non auguro a nessuno. E non ha una soluzione, sei per forza costretto a doverci interagire in qualche modo e ne puoi venire fuori soltanto resistendo più che puoi.

Shade
Foto di Mark Tampone da Ufficio Stampa Golin Italy

Il silenzio discografico è anche legato al passaggio da un’etichetta all’altra. Come ti sei sentito da questo punto di vista?
Non ho avuto la paura, in questo caso, di essere dimenticato perché ho un pubblico molto presente costruito negli anni e non sono mai stato l’artista in hype del momento. Era più un senso di tristezza perché sapevo di poter dare qualcosa di più e mi chiedevo come mai non interessasse a chi avrebbe dovuto ascoltarmi in quel momento. Mi chiedevo perché dovessi per forza sembrare quello che fa solo la hit estiva quando in realtà c’è un mondo di cose che potrebbero essere interessanti. Quando le dicono altre persone, in determinati modi, interessano quindi penso che potrebbe essere una parte di me abbastanza rilevante e anche un po’ più profilata rispetto alla versione precedente di Shade che conoscevano già tutti. Quindi ero lì che mi mangiavo il fegato da dentro dicendo “com’è possibile, perché?”. Alla fine, ho fatto le mie scelte e siamo arrivati a “Diversamente triste”.

La nascita dei brani, le collaborazioni e il pubblico

Che tipo di gestazione ha avuto l’album e che quadro ci raccontano queste tracce?
Credo che sia frutto grosso modo del lavoro degli ultimi due, tre anni perché gli altri due anni c’è stata la pandemia e ho scritto tanto ma sono tutte cose che alla fine ho cestinato. Il primo pezzo di quelli in tracklist paradossalmente è stato quello con Dani Faiv (Sopra di te), frutto di una sessione con Andry che ho conosciuto alla sfilata di un brand, l’unica volta in cui sono andato alla Fashion Week. Siamo stati in studio e ho il pezzo coinvolgendo poi Dani Faiv e Nerone. Alla produzione, poi, non mancano Jaro e Cino con cui avevo fatto la Hit dell’estate quindi abbiamo un precedente abbastanza grosso.

Delle altre collaborazioni, invece?
I featuring ultimamente sono sempre un parto perché tutti hanno mille impegni. Da parte mia ho scelto persone con cui ho un rapporto personale di amicizia e con le quali c’è una stima reciproca. È stato bello, per esempio, ritrovare MadMan con cui avevo collaborato nel mio primo album che era addirittura in free download. Il pezzo insieme (Promesse) è molto rap, molto tecnico ma sapevo che MadMan aveva il vissuto giusto da raccontare all’interno di quel brano. Parla di promesse non mantenute e di delusioni, sia nell’ambito lavorativo sia nell’ambito di una relazione. MadMan usciva da poco da una storia non finita particolarmente bene e ha sfogato tutto in quella strofa ed è bellissima. Anzi, mi sento in colpa che l’abbia usata per un mio progetto e non per un suo pezzo però ne vado molto orgoglioso. Ma tutti gli artisti davvero hanno fatto strofe che, per impegno, starebbero bene anche nei loro stessi album. Le collaborazioni tante ma non tantissime, per autocitarmi. Oggi sento dischi in cui davvero i feat ci sono solo per fare numeri. In questo caso le collaborazioni sono nate tutte in maniera molto naturale.

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E cosa pensi dell’ondata di collaborazioni che si moltiplicano in questi ultimi tempi?
C’è una saturazione di uscite e di ascolti che riguarda la discografia italiana, cosa che all’estero non succede. Qui si dà spazio anche a canzoni che sono più che altro dei trend virali dai social, è un problema tutto italiano con cui convivere. Ma non puoi continuare a rincorrere il trend del momento perché quello che funziona per gli altri non è detto che funzioni per te. Non si può cercare di fare solo quello che fanno gli altri. Serve essere stessi e conservare il proprio DNA.

A parte il duetto con Federica Carta, hai pescato dal mondo rap.
Io con il rap sono nato ed è quello che mi diverte di più fare, anzi negli ultimi anni mi mancava tanto. Credo che stia anche un po’ tornando la wave del rap fatto bene e vorrei poter dire la mia sempre rimanendo coerente con quello che sono. Sul versante trap, invece, non l’ho mai del tutto apprezzata arrivando da rap old school. Diciamo che se voglio ascoltare qualcosa mi ascolto Dogo, Marracash, Bassi Maestro…. D’altra parte ci sono artisti trap molto interessanti a fronte, però, di un oceano di artisti tutti uguali che non hanno niente da dire. Dopo un po’ la trap mi annoia. Delle nuove leve, invece, apprezzo tantissimo Tedua per esempio, uno dei fuoriclasse della trap.

Come è cambiato o sta cambiando il tuo pubblico?
Una parte è cresciuta con me. Ma ci sono anche persone più adulte che mi conoscevano grazie ai figli o per la canzone più commerciale. Spesso e volentieri mi capita, dopo I live, che tante persone mi raccontano di aver accompagnato degli amici o i figli ma ascoltandomi si incuriosiscono. Anche per questo motivo, il fattore live per me è importante. T dice tanto sia della capacità di un artista di portare la musica dal vivo, faccia a faccia, con le persone sia tano della persona. Le canzoni arrivano fino a un certo punto; quando vedi la persona in carne ed ossa, ti parla – e io parlo tanto col pubblico quando sono sul palco – è un altro paio di maniche.

A proposito di palco, sei in tour tutta estate, un tour de force in pratica.
Sì, siamo in giro tutti i giorni ed è un disastro per quanto riguarda i viaggi lerché l’Italia è connessa malissimo. I treni sono in ritardo, gli aerei vengono cancellati ma tolto quello, quando poi saliamo sul palco, il negativo rimane sotto e c’è solo il bello. Ovvero condividere con tantissime persone un momento unico, che si prolunga tra chiacchiere e foto. È il momento più bello, di condivisione quindi ben vengano le dieci ore di viaggio e i ritardi dei treni se poi è sempre così.

Se dovessi fare un augurio a questo disco quale sarebbe?
Gli auguro la vita più lunga possibile. Ultimamente i dischi durano come mosche, hanno una vita brevissima e vengono dimenticati in fretta. Quindi gli auguro magari di non fare il mega botto all’inizio per poi spegnersi subito dopo, ma di cominciare piano piano e di crescere nel tempo. Che poi è una cosa che mi ha sempre contraddistinto.

Foto di Mark Tampone da Ufficio Stampa Golin Italy