È più di un album ‘Ribellissimi’: è un manifesto che Gio Evan ha costruito intorno al tema della ‘ribellione’. La nostra intervista.

Si intitola Ribellissimi il nuovo progetto discografico di Gio Evan (Capitol Records Italy/Universal Music Italia), un concept album formato da musica (sono 11 i brani in totale compresi i 6 già pubblicati) e 11 poesie musicate tra cui una inedita collaborazione con Roberto Cacciapaglia in Graffi. Un progetto ricco di contenuti, che indaga le forme dell’anticonformismo senza dar loro tuttavia un’ulteriore etichetta.

Partirei dal titolo, da questo Ribellissimi: parli di ribellione come gesto di interiorità.
«Mi serviva una parola che identificasse la mia anarchia, l’anticonformismo, la parte più piccola e il dettaglio di un partito, di un paese, di una maggioranza: in breve, la minoranza. Mi serviva la bellezza e l’incanto. La parola Ribelle è perfetta perché avevo bisogno di ribaltare il termine. Ribelle deriva da rebellum ed è sempre associato alla guerra. Ma adesso le nuove proposte della vita, dal cibo alla musica passando per i vestiti e la politica, sono orientate verso una leggera distruzione e una marcata competizione. Mi serviva che la nuova ribellione fosse la bellezza, perché non ce n’è più. È tutto becero e c’è bisogno di intelligenza. Ribellione mi piaceva come nuovo termine e nuova proposta. Oggi Tiziano Terzani sarebbe ribelle quanto lo sarebbero la fisica quantistica, Fibonacci, Da Vinci».

Nel video di Susy, la protagonista Pina parla di una sofferenza costante causata dal giudizio del popolo. Ti riferisci anche a questo? Al fatto che parliamo tanto di inclusione, ma la realtà dei fatti è un’altra?
«Quanto si parla di inclusione oggi? Eppure, più se ne parla e più mi sembra che stiamo escludendo. Altrimenti perché parlare di inclusione? A me dà fastidio che si parli e si forzi l’inclusività, escludendo la veridicità di uno spirito. Non parlerei mai di inclusione perché non parlerei di esclusione. Pina mi ha spezzato il cuore, mi vien da piangere quando dice Amma suffrì sempre. Non dovremmo pensare all’inclusione, ma a quella sofferenza. A prescindere da chi la provi e chi si sente di essere quella persona. Santo sarà il giorno in cui ci toglieremo involucro e giudizio e saremo un po’ più liberi».

È un po’ un tema di Ribellissimi questo voler smontare la pratica delle etichette così comune oggi.
«Sì, canzone dopo canzone provo a distruggere l’etichetta. Il giudizio non è altro che la misurazione di una persona. E la misuri perché hai bisogno di contenerla altrimenti è libera e quella libertà fa male se tu non sei libero. Gesù diceva Non giudicare e non sarai giudicato. E intendeva che una persona molto aperta non viene attraversata dal giudizio degli altri. Partecipa a quel frammento di infinito. Bisognerebbe esercitarsi in questo. Non dico che dobbiamo diventare tutti Gesù, ma tra 10 anni e 20 magari un Apostolo sì».

Gio Evan: la musica di Ribellissimi

Ribellissimi è un grande lavoro anche a livello sonoro. Si sente che c’è un’enorme attenzione ai dettagli.
«Tommaso Sgarbi è l’unica persona in grado di tradurre i miei pensieri. Non essendo di naturalezza musicista, confondo gli spartiti. So scrivere e basta. Suono la chitarra e il piano e costruisco tutto, ma grazie a Dio la vita mi vuole bene e succedono armonie. Il resto mi accade in testa, sento i violini e devo portare questo ammasso di idee e note e provare a spiegarle a Tommaso. È un lavoro faticosissimo perché è veramente come descrivere l’odore di una rosa a chi soffre di anosmia. La matematica della musica la ricevo e basta».

C’è comunque un perfezionismo che si avverte nelle tracce.
«Infatti la parte musicale accade in tante fasi. Sono lento anche per questo, non ho voglia di fare le cose a caso. Mi ci ficco e mi ci impalo tanto e provo a trascriverle. Poi, quando andiamo in studio, provo a disegnare a Tommaso le sensazioni che provo e gli strumenti che vedo. Costruiamo da lì».

Deve esserci grande sintonia in studio.
«Grazie al cielo siamo amici. Non riesco a lavorare se non sei mio amico. Sono il ragazzo con meno featuring della storia italiana perché non sono capace. Se non ti amo, non mi si apre l’arte. Mi è capitato che un collega volesse qualche mia strofa in un ritornello, ma come posso partecipare a questa mensa? Ho parole timide ed è giusto che le mie cose vadano ai timidi».

C’è un tema che torna sia in Susy che in Graffi ed è quello della maternità. Più in generale, della libertà dei genitori nei confronti dei figli.
«Sono padre e sono figlio. Cristo dice più e più volte nel Vangelo quanto sia fondamentale che un figlio strappi il cordone ombelicale. Devi seguire la tua strada. Se ti crogioli sempre nel ruolo di figlio stai rallentando la tua evoluzione personale. Un po’ il tema deriva da questo e un po’ dalla mia esperienza. Sono andato via di casa a 14 anni perché volevo approfondire la vita di montagna. Mia madre mi ha concesso di farlo. Io lavoravo le lenticchie e mi sono pagato le superiori. A 18 anni sono andato in India e mi sono accorto che, grazie anche a questa non tensione da parte di mia mamma – perché mio padre l’ho conosciuto dopo – oggi mi piaccio molto. Posso dire che oggi mi frequenterei se dovessi conoscermi. Ho una responsabilità libera grazie a mia madre che mi ha permesso di essere libero».

Credo che sia la chiave, un non possesso.
«Mia mamma non mi ha mai detto Torna a quest’ora, ma diceva Se torni tardi soffro. Gandhi, quando i figli facevano qualcosa di sbagliato, non mangiava davanti a loro. È molto peggio di una punizione ed è bellissimo che un genitore abbia il coraggio di soffrire. Anche io con mio figlio mi sto allenando, ma ha solo 10 anni. Forse è presto!».

Hai annunciato il Fragile/Inossidabile Tour 2024. Che tipo di esperienza è il live nel tuo universo artistico?
«È la parte autentica del mio spirito, la vera emanazione. La poesia, come il romanzo e l’intonazione, è una parte nascosta. Ho registrato da solo e scritto da solo. Mi apparto, sgattaiolo fuori dai boschi per avere queste rivelazioni celesti. Il live è mostrarsi, essere a portata di schiaffo o bacio, tornare nel popolo. Sono così anarchico che sembro comunista. E l’anarchia mi sanifica quando incontro il pubblico. Il live è la parte dove il sentimento incontra l’autore del sentimento che provo: amore e gratitudine. Direi che con i live mi accorgo del perché amo».