Grandi Numeri dei Cor Veleno ci racconta l’album ‘Fuoco Sacro’ tra featuring e contaminazioni: l’intervista.

Si intitola Fuoco Sacro il nuovo album dei Cor Veleno, l’ottavo della loro discografia. Tredici tracce che celebrano i 50 anni dell’hip hop in un viaggio sonoro senza sconti, arricchito da preziosi featuring. In Fuoco Sacro appaiono infatti leggende come Inoki, Colle der Fomento e Fabri Fibra, ma anche alcuni dei nuovi protagonisti Nayt, Franco 126, Willie Peyote e Mostro. E ancora talenti emergenti come Ele A, Ugo Crepa e Klaus Noir fino alle gaitas di Marlon Peroza. Il disco è stato anticipato dall’uscita del singolo e video della title track Fuoco Sacro feat. Colle Der Fomento, e dai singoli La Novità feat. Mostro, Comfort Zone feat. Marlon Peroza e Pallottole Sull’amore feat. Fabri Fibra. Ne abbiamo parlato con Grandi Numeri.

Qual è la sensazione dopo l’uscita di Fuoco Sacro?
«Sono felice e non è scontato, perché abbiamo un approccio un po’ eclettico verso la musica in generale. Quando facciamo un disco non ci piace mai guardarci indietro elencando ciò che abbiamo imparato. Ci piace guardarci indietro con molta semplicità e franchezza, arrivando però ogni volta con nuove idee e nuova linfa. Fortunatamente lavoriamo con Squarta e Gabbo, che hanno provenienze musicali diametralmente opposte. Gabbo viene dal jazz, suona il basso e il contrabbasso. Squarta invece ha il background dell’hip hop storico, ma ama anche le nuove sonorità. Quindi sperimentiamo tantissimo».

C’è tanta contaminazione, potremmo dire, in Fuoco Sacro.
«Abbiamo molta libertà tant’è che nell’album ci sono pezzi un po’ più classici, anche se non siamo mai stati degli ortodossi del boombap. Ci categorizzano così, ma in realtà siamo sempre stati un po’ la pietra dello scandalo, perché ci è sempre piaciuto appunto contaminarci. In Fuoco Sacro c’è persino un brano con un artista sudamericano, amico mio da tantissimi anni: Marlon Peroza».

Ecco parliamo di quel brano, Comfort Zone.
«Io e Marlon siamo amici da 15 anni. Ho partecipato ad alcuni suoi dischi e ai suoi live. Per un periodo suonavo con il suo collettivo, poi finalmente siamo riusciti a fare un brano dove la sua presenza aveva un senso ulteriore, un fuoco sacro. È una chiave per raccontare tutto il nostro percorso artistico: il fuoco sacro è un faro, una luce che riesce a darti una direzione anche nelle difficoltà».

Quali sono le maggiori difficoltà?
«Fare musica e arte in un paese dove non sempre ci sono strutture pronte a riceverle. Penso magari a Paesi come l’Olanda, la Germania, Francia, Spagna e Inghilterra: c’è molta più consapevolezza dell’esigenza di aprirsi al mercato e creare le condizioni per far sì che i giovani possano fare musica. Non come passatempo, ma come una professione vera e propria».

Quanto può essere difficile invece distaccarsi dal mainstream?
«In realtà per noi è funzionale al tipo di live che portiamo. C’è sicuramente l’hip hop, ma anche tantissima musica. In Fuoco Sacro ci sono poi tante persone con cui volevo collaborare. Fabri Fibra, Ugo Crepa ma soprattutto Franco 126, per me una delle voci più originali e forti del panorama musicale italiano oggi. Sono felice di essere riuscito in questa prova e di avere avuto finalmente la possibilità di lavorare con questi artisti».

Cor Veleno, i featuring di Fuoco Sacro

Anche i brani con le nuove leve sono sorprendenti. Penso a Finale Chimico con Ele A.
«Quel brano lo abbiamo abbiamo immaginato proprio come un botta e risposta senza filtri e senza questioni generazionali. Un dualismo tra uomo e donna che parlano di un rapporto, di come si sviluppa e di come può a volte anche finire».

Ogni featuring sembra comunque appartenere a un racconto corale.
«Ne sono felice perché abbiamo scelto gli artisti che fanno parte di questo progetto con un criterio. Avevamo anche più canzoni e più opzioni, però a volte è stupido cercare di forzare la forma e l’essenza di un album. Abbiamo cercato di dare un po’ più di respiro e di ossigeno al discorso musicale. Tra l’altro va detto che Fuoco Sacro celebra i cinquant’anni dell’hip hop, perché ci siamo resi conto che in Italia non l’ha fatto nessuno. L’idea era quella di celebrare questo genere adeguatamente e omaggiare il fuoco sacro che fa parte dell’ispirazione vera e propria. È una sorta di musa che ti guida».

Credi che, in questo senso, la scena italiana abbia raggiunto consapevolezza e maturità?
«Sì, esce tantissima roba. Sono contento che oggi esista molta originalità. Quando abbiamo iniziato, per tanti anni eravamo sempre tutti nello stesso versante. Oggi invece sento che c’è molta più raffinatezza, originalità, autenticità. È venuto fuori l’aspetto più magico del fare rap in Italia».

Ha una sua identità.
«Si può giustamente parlare di maturazione. Forse anche l’hip hop in Italia aveva bisogno di sviluppare una propria poetica, perché c’è tantissima ispirazione americana. Io ho sempre cercato piuttosto riferimenti alla musica cantautorale italiana con cui siamo cresciuti. In casa nostra ascoltavamo Pino Daniele, Baglioni, Battisti, quindi c’è sempre stato un po’ tutto».

A proposito di Italia, Roma Sulla Pelle è finalmente un omaggio alla Capitale?
«Roma l’ho vista cambiare nel tempo ed evolversi. È una lunga storia d’amore, anche con il genere. Dai Colle Del Fomento a Gemitaiz, Coez, la Lovegang 126. C’è molta varietà e non succede in tutte le altre scene. Non per denigrare le altre metropoli, ma Roma è la città più popolosa del Paese: ha tantissime anime, storie. Ho scritto Roma Sulla Pelle quando ero confinato fuori dall’Italia. È un una mia dedica alla città. Non ho mai fatto canzoni così, però provo un senso di attaccamento derivato da una mancanza oggettiva. Non potevo vedere Roma, la gente con cui sono cresciuto, i miei amici, i parenti. Quindi ho sognato la città e le ho dedicato una canzone».

Foto di Arsenyco