È l’unico italiano finalista del premio Wildlife Photographer of The Year – The People’s Choice Award: intervista a Marco Gaiotti.

Tra le 25 fotografie scelte per il Wildlife Photographer of The Year – The People’s Choice Award c’è anche quella dell’italiano Marco Gaiotti. Il titolo dello scatto è The Grassland Geladas (I Gelada della Prateria) e immortala appunto una famiglia di babbuini gelada, endemica dell’Etiopia e unica specie vivente del genere Theropithecus. Come si legge sul sito, Gaiotti ha scattato la fotografia durante la stagione delle piogge in agosto sui Monti Semièn in Etiopia.

È uno dei pochi habitat di questa rara specie, spinta sempre più in aree ristrette dalla crescita demografica e dall’urbanizzazione. Lo scatto di Marco Gaiotti immortala, tra l’altro, una tipica famiglia (nota come harem) che di solito è formata da un maschio e un piccolo numero di femmine. Si può votare sul sito fino al 31 gennaio 2024.

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Che effetto fa essere in lizza per il People’s Choice Award?
«Se devo essere sincero, è un evento di contorno rispetto al concorso. Non è il contest principale, la cui premiazione avviene di solito a ottobre a Londra. Subito dopo, scelgono 25 immagini e lasciano che il pubblico voti quella che preferiscono. Si affidano dunque a una giuria popolare, credo anche per allungare l’evento. Al netto di tutto, dà parecchia visibilità».

Come nasce The Grassland Geladas?
«Il luogo è l’Etiopia del nord, una zona abbastanza complicata negli ultimi anni perché c’è stata una guerra civile abbastanza lunga. Sono stato una volta prima della guerra e poi sono tornato nella fase finale del conflitto, ma era un momento abbastanza tranquillo. Mi hanno dato l’ok per andare e devo dire che non c’era nessuno. Era tutto presidiato da militari e abbastanza surreale, ma anche molto bello perché non c’era turismo. Ero l’unico. L’idea era quella di tornare più volte in Etiopia, ma la zona è sempre soggetta a conflitto. Sono riuscito a sfruttare un periodo di qualche mese in cui si poteva entrare in sicurezza nell’area».

Da lì hai raggiunto i Monti Semièn.
«Sì, in realtà lo scatto è stato abbastanza semplice. C’è questa scarpata spettacolare con più di 1000 metri di dislivello, a strapiombo, e ci sono queste scimmie che tutte le mattine salgono dalla scarpata per andare a mangiare. Sono erbivore, hanno bisogno di erba fresca e la cercano sull’altopiano. Poi iniziano a mangiare e brucare e la sera tornano giù. Basta mettersi sul bordo della scarpata e aspettare che arrivino su le scimmie».

Non è stato, quindi, uno scatto complicato…
«Difficoltà particolari non ce ne sono, il luogo è abbastanza scenografico. Basta scegliere lo sfondo che potrebbe funzionare, sperando che la scimmia salti sulla roccia prescelta. Magari anche nel momento con la luce giusta e lo sfondo giusto! Più che altro ho puntato sassi a strapiombo su cui le scimmie tendono a salire per guardarsi intorno. Sperando che si mettessero lì sopra. Ma sono abbastanza confidenti e tendono a essere avvicinate, anche a 30 centimetri di distanza. Sono molto abituate alle persone».

Quanto tempo sei stato appostato?
«Servono comunque ore di appostamento perché non sai mai a che ora salgono la mattina. Soprattutto quando fa molto freddo tendono a salire tardi. Puoi quindi ritrovarti a stare fermo 2-3 ore nell’attesa che arrivi il branco. Una volta che arriva, però, in pochi minuti le scimmie si mettono nei punti giusti. O almeno si spera».

Prima parlavi di visibilità. Quanto è importante come aspetto in questo periodo?
«Farsi conoscere aiuta. In quest’epoca, essere un po’ pubblicizzati consente di emergere. Sono i canali giusti con cui fai conoscere il tuo lavoro, altrimenti diventa molto complicato. La fotografia in questo momento è un mondo non semplicissimo. Diciamo che non si campa, soprattutto se parliamo di diritti sulle immagini. Non si guadagna niente, o quasi».

Anche qui c’entra il dibattito sull’Intelligenza Artificiale?
«Per ora no. A livello di concorsi siamo ancora distanti dal riuscire a creare un file che sia riconosciuto come una foto genuina. Lavoriamo ancora con il file RAW ed è molto complesso, troppo per l’IA. Sui social invece è un’altra storia, si può fare di tutto. Ho visto lavori forse anche più belli di foto scattate in certe zone. E anche con un certo gusto compositivo, devo dire».

E tu come hai iniziato a scattare fotografie?
«Ho sempre viaggiato tanto sin da bambino con i miei genitori. Mi portavano sempre in giro, anche in paesi abbastanza strani da vedere. Pian piano ho iniziato a viaggiare da solo portandomi dietro la macchina fotografica. Non c’è stato un momento in cui ho detto Ok, inizio a fare il fotografo. Circa 15 anni fa, ho iniziato a farlo più seriamente e sono arrivati i primi risultati. Non lo faccio come lavoro, ma forse questo mi consente di farlo con una libertà e dedizione maggiore di quella di alcuni professionisti che lo fanno su commissione. Io posso scegliere ciò che mi interessa fotografare».

C’è uno scatto di cui sei particolarmente orgoglioso?
«Sicuramente l’avventura dell’anno scorso col ghepardo delle nevi è stata molto bella. Ho realizzato una serie di scatti sull’Himalaya. Sono particolari perché abbiamo trovato il ghepardo nella neve fresca e con uno sfondo molto bello. Di solito questi animali si vedono sulle pietre, le foto sono un po’ bruttine».

Lo scatto che ancora sogni di realizzare?
«In questo momento sono a corto di idee sui prossimi viaggi. Tendo a ripetere cose già fatte tentando di farle meglio. Mi piacerebbe provare a fotografare l’orso andino in Sud America. È poco fotografato e il suo habitat è molto bello».