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Nella Danimarca degli anni ’80 il giornalista Poul Brink indaga su un incidente nucleare avvenuto nei pressi della base militare di Thule, in Groenlandia, quando un aereo americano si schiantò tra i ghiacci con un carico di quattro bombe a idrogeno. Contro gli occultamenti dei politici, sfidando il potere, il giovane cronista riporta a galla la verità e, insieme, la dignità dei militari comunemente malati dopo l’incidente e di tutti i cittadini danesi, ai quali per più di vent’anni era stata raccontata una storia non loro.

In Idealisten, la documentarista Christina Rosendahl racconta la storia – ispirata alla realtà – di un idealista che fa della notizia il suo principio, molto più che il suo lavoro. La lotta impari contro un sistema invincibile diventa l’etica su cui si fonda la necessità della coscienza da una parte ed il dovere della verità dall’altra, in un film che – in maniera intelligente e narrativamente intrigante – porta in scena la denuncia alle menzogne che governano le nostre società e di riflesso le nostre vite.

Se la trama e la realizzazione sono senza dubbio suggestivi ed il risultato è tutto sommato quello di un bel film, il messaggio lascia un po’ a desiderare. La vicenda biografica e storica è interessante, ma il tono di denuncia sovrasta il dovere di cronaca e suona come un avvertimento quasi educativo del destino di cui, più che disinformati, siamo rassegnati. La Rosendahl non ci dice nulla di nuovo, nulla di cui non siamo a conoscenza e in uno stile che manca di originalità, ma lo fa proprio come se la sua fosse una rivelazione necessaria.

“La gente non è stupida”, ha detto Gianni Zanasi in conferenza. La distanza che separa il narratore dallo spettatore mi sembra sia proprio la debolezza dell’opera danese da una parte e la forza del film del regista italiano dall’altra.

Zanasi, che ha presentato il suo ultimo lavoro al Torino Film Festival, ha spiegato così il motivo per cui ha deciso di svuotare di dialoghi alcune scene del suo film: “Non c’è bisogno di accompagnare le immagini alla spiegazione di quello che vogliono dire”.

La felicità è un sistema complesso, con Valerio Mastandrea, Giuseppe Battiston e Hadas Yaron, racconta le vicende di Enrico, un avvocato specializzato nel convincere i manager ad abbandonare le aziende prima di condurle al fallimento. Quando la sua vita incontra quella di un’inattesa ospite israeliana e di due giovanissimi ereditieri alle prese con una realtà più grande di loro, Enrico si ritrova davanti una vita che non aveva programmato.

Commedia intricata nel suo sistema complesso, il film di Zanasi si rivela essere profondo e coinvolgente. Nella trama che – per stessa ammissione del regista – è forse troppo satura di contenuti, troviamo di tutto: ironia, malinconia, sentimento, riflessione politica, amarezza, riflessione esistenziale. Il protagonista, magistralmente interpretato (e in parte anche creato) da Mastandrea, vive una lotta su più fronti: etico, contro ciò che è abituato a considerare la cosa giusta ed improvvisamente non gli appare più tale; politico, contro il sistema nel quale è costretto a vivere e sopravvivere; affettivo, contro sentimenti che suo malgrado si ritrova a provare ma, soprattutto, personale, contro la persona che aveva scelto di essere e che d’un tratto è diversa dalla proiezione che ha di sé e della sua vita nel futuro. Fondamentalmente, Enrico è un uomo: pieno di problemi, colmo di pensieri e preoccupazioni e per cui le cose, guarda un po’, non vanno affatto come aveva pianificato.

Gianni Zanasi fa la cosa più bella che si possa fare nel cinema: parla con le persone, quasi dialoga con lo spettatore e, come forse il film della Rosendahl non riesce a fare, racconta l’unica storia di cui veramente sentiamo il bisogno: la nostra o, come direbbe Achrinoam, racconta la storia di noi.