Intervista al noto chitarrista e giornalista musicale, in uscita in questi giorni con il suo nuovo album, dal titolo: ‘Paparazzi, Izakayas and Cowboy’: un sofisticato lavoro di contaminazione tra vintage, sperimentazione e modernità

Simone Sello è un chitarrista, produttore, compositore, filmmaker e giornalista musicale italiano residente negli Stati Uniti. Ha iniziato la sua formazione musicale studiando il violino sin dalla giovane età, per poi diventare un noto chitarrista. Dopo la partecipazione all’album ‘Metal Attack’ (Rca 1987), inizia una carriera da session man, che lo porterà ad essere conosciuto a livello nazionale (Renato Zero, Bobby Solo, Tullio de Piscopo, Orchestra di Sanremo e molti altri). Contemporaneamente, scrive articoli per la rivista specializzata ‘Chitarre’. Nel 1997, si trasferisce a Los Angeles e inizia delle collaborazioni durature con Billy Sheehan, Aaron Carter e Disney, stabilendosi anche nel mondo della produzione musicale (per esempio, con alcuni remix per Hannah Montana/Miley Cyrus, ndr). Sempre a Los Angeles entra in contatto con Vasco Rossi, con il quale scrive alcuni brani (tra i quali ‘Cambiamenti’ e ‘Manifesto futurista della nuova umanità’) e registra diverse parti, tra cui l’assolo di chitarra di ‘Una canzone d’amore buttata via’. Nel 2023, pubblica l’Ep ‘The Storyteller’s Project’ e poi inizia ad assemblare l’album ‘Paparazzi, Izakayas and Cowboys’, portando avanti una ricerca sonora che unisce il genere ‘spaghetti Western’, il rock/blues, il surf, l’elettronica retrò e svariate influenze giapponesi. Entrambi i lavori sono concepiti per essere suonati dal vivo. Le sue principali referenze musicali spaziano dalla musica classica al rock con atmosfere elettroniche (soprattutto degli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, ndr), passando per le sperimentazioni psichedeliche, il surf rock e le armonie jazz. Di questi tempi, ascolta principalmente musica classica del ventesimo secolo, jazz ed elettronica. Proprio da questo incontro tra vintage, sperimentazione e modernità discende e caratterizza il suo lavoro più attuale: ‘Paparazzi, Izakayas and Cowboys’, uscito in questi giorni.

Simone Sello, innanzitutto volevamo chiederti lumi su questo videoclip di ‘Grey Horse’s Standpoint’, il tuo ultimo singolo, che ha annunciato l’uscita del tuo nuovo album: perché quest’ossimoro tra paesaggio western e fantascienza?
“Perché in fondo non sono così distanti. Il West è stato la ‘fantascienza dell’Ottocento’: territori inesplorati, frontiere da attraversare, miti da creare. La fantascienza, oggi, svolge la stessa funzione, ma proiettata nel futuro. Mi piaceva l’idea che deserto e spazio fossero due metafore dello stesso concetto: l’ignoto. Il videoclip è nato proprio da questa intuizione: usare due estetiche ‘opposte’ per raccontare la stessa tensione poetica”.
Ammetterai che si tratta di un accostamento storicamente particolare, tra una cultura ottocentesca e i droni del XXI secolo: il punto di vista del cavallo grigio, alla fine, qual è? Quello di una rivoluzione tecnologica? Che la nostra realtà è destinata a rimanere una guerra per bande come ai tempi del ‘selvaggio west’?
“Il punto di vista del cavallo grigio è più contemplativo che politico. È la prospettiva di chi osserva senza giudicare, ma cerca di comprendere. Il cavallo rappresenta l’istinto, la sensibilità primordiale; i droni e le astronavi rappresentano, invece, la nostra tecnologia accelerata. Nessuna ‘guerra per bande’, in questo caso, nessuna distopia: è un invito a ritrovare equilibrio tra ciò che siamo e ciò che costruiamo. Se c’è una ‘rivoluzione’, è quella della consapevolezza”.
C’entra qualcosa George Orwell con la sua ‘Fattoria degli animali’ che prendono il potere, ma poi falliscono e si trasformano, anche loro, in un dominio dispotico?
“Non è un riferimento diretto, ma l’idea simbolica di un animale che prende il controllo, sì: in parte potrebbe ricordarlo. Nel mio caso, non c’è nessuna parabola in quel senso, ma ovviamente apprezzo il genio di Orwell. Il cavallo che guida l’astronave non vuole instaurare un nuovo regime: è un’immagine poetica, quasi spirituale, che suggerisce come l’istinto possa — e forse dovrebbe — tornare a guidare la macchina. Un simbolo di armonia e di presa di coraggio, non necessariamente di potere”.

E il genere ‘spaghetti-western’? Nostalgia per i film a basso costo girati nell’agro pontino? Per l’industria cinematografica desertificata dalla televisione?
“Più che nostalgia, direi affetto: gli ‘spaghetti-western’ hanno costruito un immaginario unico, capace di trasformare i paesaggi italiani in mitologie americane. Mi interessava rivisitare quei mondi, utilizzando la mia libertà creativa: la capacità di unire estetiche diverse, senza paura di rompere le regole. In fondo, ‘Grey Horse’s Standpoint’ nasce da quell’attitudine: prendere materiali lontani e farli convivere in un linguaggio nuovo”.
È in arrivo il tuo nuovo album: ce ne vuoi parlare? Ci state ancora lavorando? Siete in fase di arrangiamento?
“L’album s’intitola ‘Paparazzi, Izakayas and Cowboys’ ed è ormai completato: è disponibile sulle piattaforme digitali dal 12 dicembre, cioè proprio in questi giorni. E’ un progetto che unisce suono e immagine: quasi ogni brano ha il suo videoclip e, tutti insieme, raccontano un universo coerente, una sorta di film musicale in più episodi. Negli ultimi mesi ho lavorato, soprattutto, alla parte visiva e performativa: il disco vive tanto nelle cuffie, quanto sullo schermo”.

Il tuo stile musicale ci ha suggerito qualche accostamento con Noel Gallagher degli Oasis, soprattutto quello di ‘AKA… What a life’: è un buon punto di riferimento o uno stile troppo ‘pop-rock’, secondo te?
“Noel Gallagher è un grande e qualsiasi accostamento con lui è un complimento. Il mio mondo è, forse, più ibrido e cinematografico, con un piede nell’elettronica e uno nel surf-rock, nel western e nel Giappone notturno. Ma il ‘pop-rock’ nella sua accezione migliore — quello che crea atmosfere e immagini — è sicuramente un territorio che rispetto molto”.
Ma come definiresti il tuo stile e quali sono i tuoi punti di riferimento musicali?
“Il mio stile lo definirei transculturale e visionario: un incontro tra estetiche italiane, americane e giapponesi. I miei riferimenti vanno da Morricone a Brian Eno, da Jeff Beck al ‘surf’ anni ‘60, dalla psichedelia al minimalismo, fino alle colonne sonore giapponesi e alla musica elettronica ‘retrò’. Mi piace costruire ‘mappe sonore’, in cui strumenti acustici, elettronica e immagini si contaminano continuamente”.

Dato che l’album è ormai pronto, che tipo promozione intendete fare? Avete in mente un tour di concerti, magari per locali prestigiosi?
“Sto lavorando a un formato ‘live’ audiovisivo, basato sulle proiezioni dei videoclip sincronizzate alla performance dal vivo: musica e immagini fuse in un’esperienza unica. L’idea è quella di portare questo spettacolo in festival, spazi culturali, cinema e in alcuni club selezionati, dove l’atmosfera possa valorizzare l’aspetto immersivo del progetto. Più che un tour tradizionale, sarà un viaggio narrativo”.
Intervista di Vittorio Lussana

