«Per anni si è detto che quello fu il “Mundial de la verguenza”, il Mondiale della vergogna. Dissero che la nostra vittoria aiutò Videla e i Generali, che fu un assist alle torture, alla violenza e alla dittatura. Ma noi non giocavamo per i militari. Noi giocavamo per l’Argentina e per tutti i suoi abitanti, perché eravamo stati scelti per rappresentare il Paese. Vincemmo per l’orgoglio della nostra nazione».

Ancora oggi, quando Mario Kempes da Bell Ville ricorda i giorni dell’estate 1978, non riesce a trattenere un rigurgito d’orgoglio. Perché non ci sta ad ascoltare ogni volta la solita tiritera. Quella che parla di un Mondiale voluto a tutti i costi dal regime militare argentino per mostrare al resto del mondo l’immagine di un Paese devastato dal totalitarismo militare, da soprusi e assassinii, dalla totale privazione di ogni tipo di libertà. Non ci sta a sentire le solite voci per cui il 6-0 con il Perù fosse stato “apparecchiato”.

«Eravamo una grande squadra e, pur non giocando bene all’inizio, dimostrammo di essere i migliori», ci tiene a precisare ogni volta che si ritrova a parlare di quella Coppa del Mondo. La prima disputata in Argentina, la prima vinta dall’Albiceleste soprattutto grazie ai suoi gol. Perché, dopo essersi tagliato i baffi, Mario Kempes iniziò a segnare a raffica, guidando i suoi compagni al trionfo.

Il Mondiale della vergogna

«Al diavolo… segniamolo, questo maledetto gol!». È quello che, con il beneficio dell’inventario, deve essere passato per la testa riccioluta del numero 10 in maglia bianca e celeste intorno alle 18.10 – fuso orario di Buenos Aires – del 25 giugno 1978. L’Argentina deve vincere e lo farà, anche se i Generali trasformeranno questa Coppa nel punto di forza della loro propaganda. Stanno per trionfare, regalando alla nazione la prima gioia Mondiale della storia argentina. Ma lo stanno facendo per la loro gente, i loro compatrioti argentini, non per Videla, Lacoste e Massera.

La Coppa del Mondo del 1978 passa alla storia come “el Mundial de la verguenza”. Il motivo risiede in quanto accaduto due anni prima, esattamente il 24 marzo 1976, quando il generale Jorge Videla ha assunto il potere, destituendo Isabelita Peròn e instaurando un regime militare.

Repressione, tortura, violenza e annullamento di qualsiasi diritto umano gettano un’intera nazione, che già si trovava in crisi economica, letteralmente in ginocchio. Chiunque provi ad esprimere il proprio dissenso nei confronti dei Generali viene arrestato, torturato, o semplicemente fatto sparire. I cosiddetti “desaparecidos”, tra il 1976 e il 1983, saranno circa 30.000. La maggior parte di loro viene gettata da aerei e elicotteri nel Rio de la Plata, e tanti saluti. “Dissidenti”, “sovversivi”, “terroristi politici”: vengono definiti così, da Videla e soci, tutti coloro che non vogliono piegarsi alla dittatura militare.

Videla neanche voleva organizzarlo, quel Mondiale, ma alla fine i suoi fidati ammiragli Lacoste e Massera lo hanno convinto che il torneo servirà a mostrare al mondo intero una grande Argentina. Ci sono opere e spese ben più urgenti, nel Paese con l’inflazione più alta del mondo, ma lo sfarzo e la perfetta organizzazione dovranno essere ben visibili a tutti. Perché «in Argentina va tutto bene».

“Scompaiono” undicimila persone solo nel 1978. Nel senso che vengono rinchiuse nei campi e uccise. A pochi passi dal Monumental, lo stadio di Buenos Aires dove Kempes e gli altri stanno giocando in questo preciso istante, sorge l’Esma, una scuola per l’esercito che per l’occasione è stata trasformata in carcere dove imprigionare e torturare chiunque non voglia sottostare alla dittatura. Tutto deve contribuire a fornire un’immagine rassicurante della Nazione. Ecco perché a Rosario viene costruito un muro di cemento che impedisce ai turisti giunti per la Coppa la vista dei quartieri più poveri. Ma «in Argentina va tutto bene».

Un taglio netto

Mario scatta verso l’area, infilandosi nel cuore della retroguardia olandese. Lo fa con la stessa incoscienza e la stessa spavalderia e lo stesso coraggio che l’hanno spinto a disobbedire al diktat di Videla e del tecnico Menotti: «I giocatori devono tagliarsi baffi e capelli», hanno detto. Non c’era punto interrogativo, non era una richiesta: quello era un ordine. «I baffi li taglio, ma i capelli… non se ne parla», pensa Mario. E così, zac!, via i baffi.

E mentre sta per ricevere la palla da Bertoni, allo scadere del primo tempo supplementare della finale della Coppa del Mondo che l’Argentina sta giocando in casa, Kempes pensa che forse, tutto sommato, quel cambio di look gli ha portato fortuna. Perché dopo essersi sottoposto alla “sforbiciata” del barbiere, ha cominciato a segnare a raffica: doppietta alla Polonia, doppietta al Perù. Contro i sudamericani la squadra di Menotti era chiamata a vincere con almeno 4 gol di scarto: ne fa 6 e va avanti tra le polemiche. I brasiliani, rispediti a casa da quel risultato, sostengono che Videla e soci abbiano comprato i peruviani per evitare l’eliminazione della Selección. Anche perché Los Incas sono una squadra tutt’altro che scarsa.

Doppietta in finale

Il 25 giugno 1978 Kempes raccoglie il pallone proprio sulla linea bianca che delimita l’area di rigore. Lo accarezza appena con il sinistro, e la scivolata di Brandts sposta solo l’aria. Ecco farsi sotto Krol dalla sua sinistra. Il numero 10, che ha già segnato un gol nei 90’ regolamentari,  tocca di nuovo il pallone con il mancino, quel tanto che basta per mandare a pattinare in stile “holiday on ice” anche il libero. È a tu per tu con Jongbloed, di nuovo, proprio come nel primo tempo.

Non è contro l’Olanda che sta giocando, ora, Mario Kempes da Bell Ville. Sta giocando contro il regime che sta dilaniando il suo Paese, contro le barbarie dei Generali, contro quel muro che divide la Rosario ricca da quella che, in quanto povera, merita di essere nascosta. Il numero 10 gioca per la sua gente, per le madri di Plaza de Mayo che manifesteranno anche a trent’anni di distanza, ogni domenica, per i loro figli “scomparsi”. E lui certo non potranno farlo sparire, perché sta diventando un eroe nazionale, perché di fronte ad una doppietta nella finale della Coppa del Mondo devono arrendersi persino Videla e Massera e Lacoste e tutti quei funzionari in doppiopetto della Fifa che hanno distolto lo sguardo per non vedere gli orrori che vengono compiuti quotidianamente da Formosa fino a Santa Cruz.

Mario calcia su Jongbloed e la sfera di cuoio si tramuta per qualche istante in una pallina da flipper: piede del portiere, piede dell’attaccante, spalla del portiere. Quindi ricade lì accanto all’uomo in maglia Albiceleste. Due difensori gli sono addosso per anticiparlo, ma Kempes distende la gamba destra. “Non so se fossi più vicino alla palla,.. Forse loro furono più lenti, o io più veloce… Ma in qualche maniera mi allungai e la buttai dentro”. La racconta così, oggi, e forse non c’è modo migliore per descrivere quella rete. La palla è dentro e l’Argentina è Campione del Mondo per la prima volta nella sua storia.

Il simbolo di un popolo

Nel secondo tempo supplementare arriverà anche il 3-1 firmato Bertoni, ma è nelle braccia al cielo del numero 10 e nella sua chioma corvina che ogni argentino si identifica. Non nel sorriso tronfio dei militari che fanno sfoggio di loro stessi nella tribuna del Monumental in delirio. La gente non li ama e non lo farà mai, perché l’amore non si compra con una Coppa del Mondo disastrata e corrotta, che ha indebitato ulteriormente un Paese già al collasso.

Il popolo si identifica in Mario Kempes, che al momento della premiazione si rifiuta di stringere la mano a Videla. Lo ignora deliberatamente. In seguito si giustificherà dicendo di non averlo notato, nella concitazione del momento. Ma come puoi non vedere il capo assoluto della tua Nazione? No, la verità è che il numero 10, quello che s’è rifiutato di tagliarsi i capelli, quello che ha segnato sei gol in tre partite, non vuole avere nulla a che fare con quei criminali sanguinari. Per questo se ne va dritto negli spogliatoi. Lui non possono farlo “sparire”, no. Perché è appena diventato un eroe. È appena diventato il simbolo della speranza di un popolo piegato, ma non spezzato. È appena diventato il simbolo di un’Argentina che resiste e che si batte per un futuro migliore.

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La redazione de Il Romanista