Nelle brume di un inizio d’autunno sconquassato al nord dalle tempeste perfette di un sempre più incombente surriscaldamento globale, ci sentiamo come quel cacciatore  di carducciana memoria che, fischiando sull’uscio, rimira nel cielo gonfio di nubi rossastre “stormi di uccelli neri com’esuli pensieri nel vespero migrar“. Diventa questa l’ottima metafora di un periodo, laddove di colombe bianche non se ne vede nemmeno l’ombra.

Preoccupati per ciò che ci aspetta da qui a fine anno e nell’anno prossimo, resta difficile fare  previsioni di una qualche certezza rispetto  all’attuale struttura sociale aggredita da una pandemia sanitaria tanto inedita ed ora alle prese con emergenze climatiche che aggravano la già critica tenuta economica.  Al di là di certi allarmismi che vanno a nuocere  ciò che di buono il Paese ha fatto in questi mesi di doloroso frangente da Covid, c’è sicuramente da chiedersi se il fattore tempo sia stato mal giocato o, quantomeno, soggetto ad ambigui silenzi.

Tant’è.  In primo piano sono i giovani e la scuola, la cui ripresa sembra scivolare sulle rotelle di quei  monopattini importati dalla Cina, tanto simpatici per carità,  ma piuttosto pericolosi nella loro silenziosità. Ci piace in merito citare l’ottima analisi di uno psichiatra come Paolo Crepet,  da sintetizzare in una sua frase lapidaria: “Si riapre la scuola, si chiude la porta del carcere“.  Assai illuminante il suo pensiero riguardo ai bambini, che egli chiama “autistici digitali“.  “I bambini – ribadisce con forza – devono invece giocare col pongo“.  Come non essere pienamente d’accordo?  Lasciamo all’infanzia  il suo sviluppo naturale, ascoltiamo le loro domande senza spazientirci evitando peraltro le discussioni familiari in loro presenza, aiutiamoli a capire gradualmente cosa c’è al di là della finestra di casa,  non mettiamo loro in mano regali astrusi appartenenti a quella gamma di alta tecnologia che obbedisce solo al gioco di certe piattaforme pubblicitarie.

Ed ecco che siamo a chiederci  cosa ne sarà delle nostre famiglie nella fase finale di quest’ annus horribilis, laddove la predisposizione al risparmio si farà ben  sentire sul libro dei conti delle fasce più deboli.  Vien facile interrogarsi  se conta più la salute o l’economia. Bella domanda.  Ci sembra che l’una sia legata all’altra. Curarci adeguatamente implica un continuo di spese a carico personale di farmaci e integratori  non offerti dal S.S.N.  E, a proposito di crisi industriale, uno dei settori al momento più favorito è proprio l’industria farmaceutica,  che sforna una gamma infinita di farmaci per ogni più piccolo sintomo, da un semplice starnuto al più lieve mal di pancia, che terrorizzano i più ansiosi, i cosiddetti ipocondriaci,  i quali corrono difilato in farmacia per paura del virus coronato.

Valido settore industriale è anche quello della produzione di mascherine che, vivaddio, vede l’impiego del lavoro femminile in prima linea. Interesse destano altresì  quelle imprese di notevole capacità produttiva nel campo dell’agricoltura, un  settore che, per iniziativa privata di solerti imprenditori, sta guadagnando gran seguito con i nuovi criteri steineriani di biodinamica.

In marcata situazione di sofferenza appaiono invece i settori della ristorazione e del turismo. Saracinesche abbassate  una via l’altra, dipendenti licenziati, nell’impossibilità di anticipare una serie di tasse iugulatorie.  Che dire poi di un reddito di cittadinanza usufruito da certi personaggi  indebitamente, per non parlare dei Centri  per l’Impiego, altro inutile carrozzone che non impiega proprio nessuno. A rifocillarsi sulle nostre criticità, guarda caso arrivano puntualmente gli occhi a mandorla, quei cinesi dove trovi tutto ma proprio di tutto, dalla spilla da balia alla pentola, dalle creme per il viso agli appendiabiti, dal pigiama alle mutandine ricamate e alle mascherine di ogni foggia e colore, dagli orribili fiori finti al vestituccio superfiorato  dernier cri.

Fuori da questi templi del facile mercantaggio,  s’avverte il caos che è nell’aria e la palpante confusione dei ruoli governativi.  Ci si guarda in giro e, francamente, non si riesce a vedere tra i giovani leoni del momento un soggetto capace di tirarci fuori dal guado. Ognuno scalpita, ognuno grida, ognuno dice la sua anche in tema sanitario improvvisandosi tutti esperti virologi, ognuno è pronto a ritrattare da un giorno all’altro i suoi punti di vista in una campagna elettorale  che non  sembra vedere la sua fine.

Cosa serve al Paese? Serve competenza e non giochi di potere personale. Serve restituire al cittadino quei diritti e quelle garanzie fondamentali  per tutti, ricchi e poveri, in ossequio ai principi democratici della carta costituzionale.  Se qualcuno ha sbagliato, paghi il giusto che deve pagare senza sterili ritorsioni, perché ognuno, a ben guardare,  ha il suo cadavere nell’armadio.

Oramai il periodo estivo ha fatto il suo corso terminando al nord in un mare di fango. Il popolo degli italiani sa sempre come rialzarsi, come rimettersi in piedi dalle batoste più dure. Eccolo ritrovarsi al mattino sui circuiti autostradali nella solita coda sfiancante, con un pallido arcobaleno che fa capolino  al di là dei pesanti cirri nuvolosi.

Ce la faremo a passare l’invernata alla ben’e meglio?   Quando comparirà nei nostri cieli un magico arcobaleno, beneaugurante per definizione. Ce la faremo a toglierci per sempre dal grugno questo benedetto  o maledetto schermo di pezza che ci fa somigliare a tanti extraterrestri? E chissà se non veniamo proprio dalle stelle per qualche imperscrutabile disegno? Bisognerebbe chiederlo al caro Einstein, il quale si starà rivoltando nella tomba con la sua classica linguaccia  nei confronti di noi viventi che, è il caso di dirlo, saremmo piovuti dalle stelle… alle stalle.

Articolo di Angela Grazia Arcuri