Intervista a un’attrice oggi trasformatasi in amministratrice di tournée per l’associazione culturale fiorentina ‘Arca Azzurra’, che ha saputo cogliere con grande intelligenza alcune critiche sollevate già in tempi ordinari al mondo teatrale: la scarsa attenzione alla comunicazione e alla formazione del pubblico, mostrando la grande passione e il duro lavoro che c’è ‘dietro’ ogni rappresentazione

Il piccolo grande miracolo che si sta realizzando di fronte a una platea priva di spettatori è quello dello storico Teatro comunale Niccolini di San Casciano (Fi), aperto in questi giorni per le prove di una nuova scrittura drammaturgica. Nella sua sala ottocentesca, la più ampia del Chianti, sta infatti nascendo l’ultimo lavoro di ‘Arca Azzurra’, la compagnia residente nello stabile chiantigiano diretta da Ugo Chiti, che firma il libero adattamento e la regia di ‘A debita distanza’: un testo liberamente ispirato al ‘Decamerone’ di Giovanni Boccaccio e a ‘I racconti di Canterbury’ di Geoffrey Chaucer. In scena, gli attori di un gruppo che ha fatto storia nel panorama nazionale, per solidità e spessore artistico e che, oggi, rappresenta una delle realtà teatrali più prolifiche e affermate: Giuliana Colzi, Andrea Costagli, Dimitri Frosali, Massimo Salvianti e Lucia Socci. Tuttavia, prima di vederlo in scena o in tournée nei maggiori teatri toscani e italiani che lo ospiteranno – non appena sarà possibile – ‘A debita distanza’ offre una sintesi del lavoro drammaturgico e interpretativo che lo qualifica, in un video (https://youtu.be/KBurhOMXCus) realizzato da Arca Azzurra per la Fondazione Toscana Spettacolo Onlus e il Comune di San Casciano in Val di Pesa, che da anni collaborano alla programmazione e alla direzione artistica del Teatro Niccolini. Un ricco ‘backstage’ che pone al centro la figura di Ugo Chiti con un’intervista sui contenuti e la visione che sta alla base della nuova produzione, come nasce e si sviluppa in tempo di coronavirus, anche nel rapporto con lo spazio e gli attori, intervallato da immagini relative allo spettacolo ‘in fieri’. Un ‘work in progress’ di un’esperienza di altissimo valore teatrale, che infonde speranza e fiducia per il futuro del teatro. Il prodotto digitale corre già sul web ed è disponibile nella versione adatta alla rete sui canali social istituzionali: pagina Facebook e YouTube di Fondazione Toscana Spettacolo e Comune, che peraltro ha aperto un contenitore virtuale nel corso della prima ondata della pandemia ‘Il Melograno’ – finalizzato a diffondere on line l’intero patrimonio culturale e artistico di San Casciano. Per approfondire meglio il lavoro di quest’eccellenza dell’arte teatrale, abbiamo incontrato Alessandra Panzone, un’attrice pratese che si era già distinta, in passato, con la compagnia fiorentina ‘Teatro del Mantice’.

Alessandra Panzone, noi ti abbiamo conosciuta un paio di anni fa con la compagnia del Teatro del Mantice e oggi ti incontriamo, sempre nell’ambito della cultura teatrale, con questo ‘A debita distanza’: cosa è successo, nel frattempo, pandemia a parte?

“La compagnia del Teatro del Mantice si era formata nel marzo del 2015 ed era costituita da un gruppo di giovani attori emergenti che, in parte, si era trovato a lavorare insieme per qualche mese all’interno del Teatro Metastasio di Prato. Terminato il periodo di lavoro, il gruppo ha deciso di continuare. E fu allora che è nata l’associazione. Io mi sono unita al gruppo come attrice, che contava già 11 elementi, durante il periodo della sua nascita. Perciò, posso dire di esserci stata praticamente dall’inizio, contribuendo anche alla scelta del nome: ‘Mantice’. Infatti, con questo simbolico nome noi volevamo trasmettere ciò che per noi significava ‘fare teatro’. Alla base dei nostri lavori si percepiva la necessità di una ricerca continua di nuovi linguaggi, con l’intento di toccare e smuovere le coscienze della maggior parte delle categorie di pubblico. Un progetto ambizioso, che si è concluso circa due anni fa, dopo la prima edizione del Diastema Festival: un progetto che mi vedeva nel ruolo di direttrice artistica e responsabile organizzativo. Il Diastema Festival, nello spirito di libertà e dialogo, ha proposto al pubblico, in 3 giorni, 3 spettacoli scritti e diretti da 3 giovani artiste donne le quali, avendo fatto un lavoro di ricerca e rielaborazione su 3 grandi classici (Antigone, Alice nel paese delle meraviglie e il monologo ‘Essere o non essere’ di Amleto) hanno elaborato una propria risposta, spogliando i testi da ogni eccesso, per farne emergere la sostanza profonda, amalgamata alla propria memoria ed esperienza. Ricordi che rigenerano il presente e contribuiscono a dipingerne diverse prospettive, egualmente autentiche. Perciò, Diastema, non inteso nel senso ‘medico’ come spazio esistente tra un dente e l’altro (un’imperfezione che a parer mio è perfetta e rende unici), ma come ‘spazio’ fra passato, presente e futuro, per domandarsi: ‘Cosa resta oggi di tre testi classici dopo secoli di rappresentazioni, di innumerevoli interpretazioni che hanno gettato una luce su ogni angolo della sceneggiatura e dei personaggi’? Come si può ancora trovarvi qualcosa di originale’? Tuttavia, una compagnia ha bisogno di dedizione, tempo e tanti sacrifici. E forse, per la nostra giovane età, sentivamo di dover fare nuove esperienze in altre situazioni e con altri professionisti, prima di scegliersi veramente. Insomma, dopo vari funambolici giri, fatti sempre in ambito ‘teatral-culturale’, sono approdata ad ‘Arca Azzurra’, quest’associazione culturale con sede a San Casciano in Val di Pesa (Firenze). Grazie a loro, ho fatto la mia prima vera esperienza di tournée come amministratrice di compagnia per lo spettacolo ‘Donchisci@tte’, con Alessandro Benvenuti e Stefano Fresi, prodotto per l’appunto da Arca Azzurra. Una tournée durata 4 mesi, che ci ha portati ad attraversare l’Italia da nord a sud come poche compagnie italiane, oggi, possono permettersi di fare. Poi, arriviamo a quel famoso 4 marzo 2020: io mi trovavo a Roma, al Tor Bella Monaca, impegnata nell’organizzazione del riallestimento del ‘Chi è di scena’, sempre prodotto da ‘Arca Azzurra’, ma scritto, diretto e interpretato da Alessandro Benvenuti. Insieme alla squadra tecnica e al cast stavamo per debuttare e iniziare un nuovo periodo di tournée, ma la chiusura dei teatri, a seguito dell’annuncio dello stato pandemico, ci ha fatto rientrare a Firenze fino a data da destinarsi. A distanza di quasi un anno – con un piccolo intervallo estivo e un altro autunnale di appena un mese – siamo sempre in attesa di capire quando il settore dello spettacolo potrà tornare a vivere, nei teatri e tra il suo amato pubblico”.

Puoi descriverci meglio il lavoro che sta svolgendo l’associazione ‘Arca Azzurra’? Quali sono le vostre finalità e qual è il tuo ruolo?

“L’evolutiva ‘Arca Azzurra’ – utilizzo quest’accezione perché, soprattutto in questo periodo di profonda crisi per il nostro settore, ho visto una compagnia capace di affrontare le difficoltà attraverso la creazione di nuovi prodotti, che potessero mostrare nuove prospettive – è una realtà toscana che ha, alle sue spalle, oltre 30 anni di lavoro. Nasce nel 1982 e, in un interrotto sodalizio con Ugo Chiti, vero e proprio poeta di compagnia, lavora nel segno esclusivo della drammaturgia italiana contemporanea con significative aperture al lavoro di drammaturghi, attori e registi di primo piano del panorama teatrale, come il già citato Alessandro Benvenuti, Stefano Massini, Francesco Niccolini e Leo Muscato. Gli attori della compagnia, che ha fatto la storia nel panorama nazionale per solidità e spessore artistico e che, oggi, rappresenta una delle realtà teatrali più prolifiche e affermate, sono: Giuliana Colzi, Andrea Costagli, Dimitri Frosali, Massimo Salvianti, Lucia Socci. Questi ultimi hanno dato corpo e voce, anche insieme ad attori di grande calibro, come Leo Gullotta e Amanda Sandrelli, a moltissimi personaggi. E continueranno a farlo all’interno di un repertorio attento, da una parte, ai mutamenti della società contemporanea e, dall’altra, nell’interesse sempre rinnovato verso i grandi classici”.

E il tuo ruolo? Qual è?

“Il mio ruolo, in condizioni normali, sarebbe quello di ‘segretaria di giro’ o, per meglio dire, amministratrice di tournée degli spettacoli di e con Alessandro Benvenuti prodotti da ‘Arca Azzurra’. Tuttavia, in questo periodo di ‘astinenza forzata’ imposta allo spettacolo dal vivo, mi sono dedicata principalmente alla compagnia e ai suoi attori, per pensare e creare contenuti destinati alle piattaforme ‘social’ che, oggi più che mai, sono diventate il contenitore di prodotti culturali di molti gruppi italiani. Proprio in questa nuova prospettiva di crescita nell’utilizzo di queste piattaforme di comunicazione s’inserisce questo progetto di ‘backstage’, realizzato con il sostegno di Fondazione Toscana Spettacolo Onlus e il Comune di San Casciano. Durante il secondo periodo di chiusura dei teatri, ancora in corso, ‘Arca Azzurra’ si è trovata impegnata nell’allestimento e le prove della nuova produzione di ‘A debita distanza’ di Ugo Chiti, il quale, riconsiderando gli effetti della pandemia, ha rimesso mano ad alcune novelle del ‘Decamerone’ di Boccaccio e ai ‘Racconti di Canterbury’ di Chauser per costruire un adattamento e nuova regia che rispettasse le norme stabilite dal Dpcm. E’ stata proprio questa la sfida affrontata, che viene, in parte, raccontata nel ‘backstage’: la difficoltà di portare in scena novelle dalla forte tensione erotica senza alcun tipo di contatto fisico o diretto tra gli attori”.

La correlazione tra Geoffrey Chauser e Giovanni Boccaccio sembra uno strano incrocio tra la letteratura inglese e italiana: perché? Che tipo di equazione state cercando di proporre?

“Il repertorio di ‘Arca Azzurra’ è ampio, attento alla società contemporanea e ai suoi avvenimenti, con un interesse sempre rinnovato verso i grandi classici attraverso riscritture e adattamenti. Per non parlare del fatto che Ugo Chiti, per Boccaccio ha una sana ‘ossessione’. In una delle sue ultime interviste ha dichiarato: ‘Le novelle del ‘Decamerone’ si prestano agilmente a punti di vista diversi, perché raccontano una caleidoscopica commedia umana dove ricorre un elemento che sento mio: il collimare tra l’illusorio, il riflessivo, il comico e il dramma’ (Repubblica, 21 gennaio 2021, intervista a firma Fulvio Paloscia, ndr). In ultima analisi, posso affermare che la capacità di Ugo Chiti di giocare con i linguaggi dei ‘grandi’ del passato si è collaudata, in questi quasi quarant’anni di lavoro, con gli attori di ‘Arca Azzurra’, i quali riescono ad aderire in maniera quasi simbiotica al testo e alla sua capacità comunicativa”.

In buona sostanza, stai provando a sperimentare una sorta di grande teatro ‘a distanza’?

“A me interessa, in primis, raccontare come una splendida compagnia come ‘Arca Azzurra’, che resiste da più di 30 anni, continui a lavorare anche in tempi di pandemia, quando tutti ipotizzano e si chiedono: ‘Ma cosa fanno gli attori adesso? I teatri sono chiusi e non torneranno a lavorare prima della riapertura’. In un secondo luogo, cosa che mi preme maggiormente, è mostrare una compagnia e una produzione teatrale in tutti i suoi aspetti, organizzativo, tecnico e artistico, per fare, indirettamente, quella che viene definita: ‘Formazione del pubblico’. Questo desiderio, che da sempre aleggia in me, si è ulteriormente radicato proprio durante questo periodo di pandemia. Ultimamente, sono emerse piattaforme dove è possibile guardare spettacoli teatrali integrali. Ma se prima lo sospettavo, adesso sono fermamente convinta che questi metodi di rappresentazione non possano essere i contenitori dello spettacolo dal vivo, per lo meno non per tutti i suoi generi. Invece, sono fortemente convinta nel loro utilizzo per far avvicinare maggiormente il pubblico e incuriosirlo verso questo ‘mondo’. Così io m’innamorai del teatro: prim’ancora di essere attrice od organizzatrice, l’ho sempre vissuto in tutte le sue parti. Come possiamo continuare a fare teatro senza formare chi ci viene a vedere? Pretendiamo di fare un teatro democratico ma in realtà, a mio avviso, sta diventando sempre più ‘elitista’, alcune volte per questioni economiche, altre volte perché troppo intellettuale, provocando una selezione naturale e una ristrettezza di pubblico”.

E quindi hai deciso produrre questo primo video: ce ne vuoi parlare?

“Grazie alla fiducia accordatami dalla compagnia per poter realizzare questo ‘prodotto-video’, in unione con il videomaker ci siamo domandati quale fosse il modo più onesto e discreto per raccontare tutto questo. Ugo Chiti in primis è un regista molto riservato: ama creare una sorta di ‘intimità’ durante il suo lavoro con la compagnia. Perciò, ci siamo chiesti: come si raccontano i momenti privati di una ‘famiglia teatrale’? In più, c’è da aggiungere che, in teatro, le cose accadono sempre molto rapidamente: si pensa, si organizza e si fa. In una situazione ordinaria, questo lavoro avrebbe richiesto almeno un mese di tempo per osservare il gruppo, comprenderne le dinamiche, conoscere i luoghi di lavoro e via dicendo. In realtà, si è svolto tutto in 3 giorni, molto intensi, dove il videomaker, Johan Tirado: un artista colombiano, nato a Bogotà, che sin da subito ha intercettato la sensazione di artigianato e di dinamismo propria del teatro in questi tempi di pandemia, utilizzando, per restare coerente a tutto ciò, un’attrezzatura tecnica ridotta al minimo indispensabile: una vecchia telecamera senza stabilizzatore, con la quale ha realizzato 3 ore di girato che, nel montaggio, si sono ridotte a 27 minuti di immagini, contraddistinte da un profondo senso di delicatezza e fugacità. E’ un lavoro che non ha alcuna pretesa: le inquadrature dei momenti di prova sono state realizzate con ‘discreta presenza’, come quando si guarda di soppiatto, quasi di nascosto, tutto ciò che stava accadendo in questi giorni di allestimento e prove, creando così un punto di vista libero, intimo e concreto”.

Insomma, hai compreso uno dei problemi del teatro in generale, a prescindere dall’attuale condizione di emergenza sanitaria, cioè la capacità di veicolare meglio e più professionalmente gli aspetti comunicativi: è questo l’apporto che intendi fornire?

“Il mio apporto a questo lavoro è quello di essere un ‘ponte’ tra la compagnia e l’esterno non solamente con il videomaker, ma con il pubblico che, in seguito, assiste al risultato di tutto questo lavoro. Un ‘ponte’ che colleghi l’attore, l’operatore teatrale, il tecnico e tutte le maestranze che operano all’interno della creazione di uno spettacolo, fino a raggiungere il pubblico: ecco perché questo backstage si compone di più momenti e più luoghi. Il pubblico, finalmente, entra negli uffici dove tutto viene pensato, organizzato e distribuito. Ovvero, nel teatro Niccolini di San Casciano, la residenza artistica della compagnia, per vedere i tecnici all’opera con il montaggio, gli attori in prova con il suo regista e i camerini, il luogo più intimo e di preparazione dell’attore. Lo scopo, insomma, è quello di formare il pubblico per alimentare la sua curiosità e, forse, riuscire a rispondere a qualche domanda che, sono sicura, qualcuno si è sempre posto, andando a teatro. Una volta che il video è stato realizzato e pubblicato sul canale Youtube della Fondazione Toscana Spettacolo Onlus (per vedere il video, copia e incolla il seguente indirizzo: https://youtu.be/KBurhOMXCus), io ho contribuito alla sua diffusione soprattutto verso i ‘non addetti ai lavori’. Ed è stato bello ascoltare alcuni commenti come quelli di mia zia Teresa – una simpatica signora che vive in una cittadina avellinese e che sarà stata a teatro, sì e no, 3 volte in tutta la sua vita – pieni di meraviglia nel vedere anche un semplice montaggio di luci e scene, riflettendo con maggior curiosità su quanto sia complesso questo mestiere”.

Parliamo un po’ di te: io ricordo un tuo lavoro, splendido peraltro, che si riallacciava alla cultura popolare dell’isola di Giava: sempre questi contrasti, questi incroci particolari ti interessano, sotto il profilo culturale?

“Quel particolare approccio con l’isola di Giava nacque per la ricerca di una suggestione, di un’idea dalla quale partire per un progetto teatrale che affrontasse il tema della manipolazione delle informazioni. Diciamo che amo particolarmente quel tipo di teatro non didascalico, in grado di sviluppare un linguaggio fisico/verbale che esuli dai codici comunicativi del dialogo e del ‘body language’ di tutti i giorni, oppure che, di questi ultimi, ne realizzi una trasposizione grottesca, estremizzata. Per me, il teatro è educazione. E’ ciò che regala al prossimo gli strumenti della vita condivisa, sia essa in famiglia, sia in società o sul luogo di lavoro. Ed è, soprattutto, una prova di esperienza. Fare o andare a teatro, per me è come portare in palestra il mio cervello e la mia anima: entrambi devono costantemente tenersi allenati all’empatia, per essere sempre più capaci di comprendere, soprattutto nella vita di tutti i giorni, le situazioni altrui, senza giudizio alcuno”.

Sei una ragazza complicata, oppure è l’attrice quella che, certe volte, sembra quasi rifugiarsi sulle alte vette della cultura?

“A quasi trentatré anni, vorrei potermi descrivere come una donna che non potrebbe fare altro se non quello che sta già facendo. Prima di approdare professionalmente al mondo del teatro, sono passata per molti lavori. Oggi, mi rendo conto che ho sempre cercato di far fare esperienze a chiunque mi si presentasse di fronte e che manifestasse anche solo un briciolo di fiducia: il semplice ‘cliente’ diventava, per me, una persona da accompagnare in una scelta e farlo sentire nel posto giusto, al momento giusto. Ho iniziato a fare teatro per gioco, a 14 anni. E non mi sono più tirata indietro. Mi ha formata personalmente, nel carattere, culturalmente. Forse, mi ha reso un po’ complicata, perché questo mestiere ti conduce verso mille, milioni di domande; a metterti sempre in dubbio; a non dar mai niente per scontato. Tutto questo porta confusione a volte, o a sensazioni di ‘spaesamento’. Ma è anche bello lasciarsi andare verso la corrente di un qualcosa che ti ‘trasporta’, indipendentemente dalla tua volontà. Poi, quando credi sia sufficiente, ti rimetti sulle tue gambe, osservi tutto il viaggio, fai chiarezza e, solo allora, rendi pubblico ciò che vuoi comunicare”.

Che tipo di progetti stai sviluppando per quando usciremo dai limiti oggettivi dettati, in questa fase, dalla pandemia?

“Questa pandemia non mi ha ancora ‘toccata’, fortunatamente, da un punto di vista personale, né per ciò che riguarda la mia condizione di salute, né ha invaso con risvolti drammatici la mia famiglia o il mio luogo di lavoro. Perciò, da questo punto di vista mi ritengo fortunata e tranquilla. Diversamente, in ambito lavorativo ci siamo ritrovati a fare, quasi giorno per giorno e a seguito dei vari Dpcm, il punto della situazione e a rimescolare le ‘carte’ di un gioco che era già stato definito. In teatro, si pensa progettualmente, in base a cicli di circa tre anni in tre anni. La pandemia, al contrario, ci ha riportato a rivedere tutti i piani e a vivere giorno per giorno. Io mi sto adeguando a questa nuova ‘forma mentis’. E continuo il mio lavoro di creazione di contenuti culturali, con meno progettualità a lunga scadenza, ma più concentrati sull’oggi o, al massimo, sul domani. Anche perché: ‘Chi vuol esser lieto sia: del doman non v’è certezza’, scrisse qualcuno…”.

Photo credits Maria Grazia Lenzini