Si intitola Michel l’album di Mudimbi, uscito a marzo per Warner Music e ricco di ironia e di battute dissacranti. Se c’è una cosa che non si può assolutamente dire del rapper di origini italo-congolesi è, infatti, che sia banale e ‘già sentito’. Abbiamo parlato al telefono con Mudimbi, che ci ha raccontato qualcosa di questo nuovo lavoro.

Ciao Mudimbi, come stai? Io, innanzitutto, ti ho visto dal vivo quando hai aperto il concerto di Samuel all’Alcatraz. Mi sembra che sia andata bene quella sera!
È stato bellissimo, però avevo un po’ paura. C’era tanta gente che non se lo aspettava, ed è giusto. Vai al concerto di Samuel e esce Mudimbi. Avrebbero potuto far partire una sassaiola e invece è stato amore a prima vista. Sono andato via tra gli applausi, quindi sono molto orgoglioso.

Parliamo dell’album. Hai uno stile molto dissacrante e ironico, ma non ho potuto fare a meno di notare che hai dato al disco il tuo nome di battesimo, Michel. Il che lo rende un po’ meno ironico e più personale…
Sì, sono io in prima linea. Io e solo io, ci metto la faccia in tutto e per tutto.

I brani invece come sono nati?
Alcuni vengono dal passato e sono maturati nel cassetto. Altri, che non sono nell’album, sono invece ammuffiti nel cassetto (ride, ndr), quindi non ho potuto utilizzarli. Quelli che sembravano più validi, come ad esempio Tachicardia (che è del 2000), li ho ripresi cambiando però pochissimo. Ho cambiato quattro parole in croce e le ho messe su una base più attuale. Di Schifo avevo scritto solo la prima strofa, quindi mi sono dovuto ingegnare. Per la maggior parte degli altri brani nasce tutto dalle produzioni. Io scrivo molto sulla base, ascolto quello che la base sta cercando di comunicare e seguo l’ispirazione. In realtà, durante la fase di registrazione, mi hanno fatto i complimenti per questa ‘tecnica’, anche se non direttamente. Però mi hanno riconosciuto la capacità di cogliere ciò che una base vuole esprimere e scrivere un testo calzante. Ovviamente sputo sangue ogni volta che scrivo.

Perché?
Non riesco a prendere la base e decidere di cosa voglio scrivere. Mi metto lì come uno psicotico, cosa che prima o poi diventerò, e parlo da solo. Farfuglio – questa cosa è veramente ridicola – cercando di immaginare cosa vorrei dire su quella base. Ma ci passo le settimane, eh! Soffro parecchio, ma spero che alla fine si veda solo la parte positiva del lavoro (ride, ndr).

Com’è invece ripescare brani che hai scritto tanto tempo fa?
Ti faccio un esempio: Risatatà l’ho scritta anni fa. Ero in una tenda al Rototom, volevo scrivere una canzone che fotografasse il momento e mi venne in mente questa parola, Risatatà. Spesso scrivo un brano partendo da una parola, come Supercalifrigida. Pensa che, in realtà, tanti anni fa le stesse persone che, volontariamente o meno, mi insegnarono a fare rap, mi criticarono perché sono solito scrivere il testo e far uscire la canzone a un anno di distanza. Mi dicevano che non potevo non rivedere il testo se nel frattempo era passato un anno. La mia filosofia, però, è che se un testo è finito, è finito. E ne sono certo perché non parlo mai veramente di attualità, non faccio nomi né parlo di eventi specifici. Mi piace disegnare un quadro un po’ più ampio, descrivendo modi di fare che per fortuna o purtroppo sono sempre validi. 

Il singolo è Empatia. Hai detto però che non vuoi più scrivere canzoni quando sei innamorato. Ne sei ancora convinto?
Sì. Guarda, quando ho scritto la prima parte ero veramente imbambolato, con i cuori che uscivano dappertutto. Probabilmente l’ho scritta con la carta profumata, con la gomma a forma di cuore… È stato comunque bello scrivere la prima strofa, perché scrivere di getto mi capita molto raramente. Forse mi è capitato con 3-4 canzoni. In Empatia le parole uscivano a valanga, perché ero intriso di quelle sensazioni. Va bene una volta, ma costruirci una carriera anche no (ride, ndr). Inizierei ad avere un problema, però magari in futuro mi ricapiterà.

A proposito del video di Empatia, che mi dici?
Questo video nasce dalla disperazione più totale, perché abbiamo dovuto tirarlo fuori in tempi strettissimi. Nelle ultime settimane sono accadute delle cose che ci hanno messo un po’ fretta. Ho chiamato Federico Cangianiello, che è il regista, e gli ho detto proprio che avevamo due settimane per tirare fuori un video che non facesse cacare per una canzone che potenzialmente poteva invece pure far schifo al mio pubblico. Anche perché è la mia unica canzone d’amore. Abbiamo pensato di tornare allo stile di Mudimbi vero e proprio, con una demanzialità molto accentuata. Il passo è stato breve: abbiamo deciso di prendere ogni cliché d’amore del cinema e reinterpretarlo in chiave Mudimbi. C’è Baywatch, perché sono fan. E ancora Ghost, Casablanca… tutte cose a cui abbiamo aggiunto un po’ di sale, ed ecco il video.

Però ora ho una domanda: se temevi la reazione dei fan di fronte a una tua canzone d’amore, perché l’hai scelta come singolo?
La storia di Empatia nasce tempo fa. Prima ho scritto la prima strofa, poi la seconda. Un anno dopo circa, sono entrato in studio per selezionare le tracce per l’album e, tra quelle scelte, c’era anche Empatia. Mi guardo con Oliver Dawson, che è il mio mentore da due-tre anni, e lui mi dice che con Empatia rischiavo di passare in radio, nonostante fosse troppo lunga. Si è quindi preso mezz’ora per eliminare un po’ di parti, cancellare le rime meno incisive, mischiare le carte dal punto di vista della voce femminile ed è venuto fuori una sorta di Frankenstein. A quel punto abbiamo voluto provare il passaggio radiofonico e da qui la fretta anche di fare il video. Ci saranno altre sorprese, ma non rivelo nulla.

Mi dici qualcosa sulle date live che ti aspettano?
Siamo partiti l’1 aprile e finora non ci siamo mai fermati. Ci fermiamo a luglio, ripartiamo il 23 da Brescia e utilizziamo questo tempo per ampliare lo stesso live, perché sia io che il mio dj soffriamo di noia. Ci annoiamo molto a proporre sempre le stesse canzoni, molte cose infatti le facciamo in modo improvvisato. Anche perché il primo live ho seguito il copione e ho fatto pena. Pensa che è venuta mia madre a vedermi e mi ha detto proprio: ‘No, devi improvvisare’.