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Michele Bravi riparte dai contrasti e dagli ossimori, con otto brani sorprendentemente in inglese, ‘impacchettati’ in un album dal titolo quasi grottesco, tanta è la sua durezza.

I Hate Music: Michele va dritto al punto e, senza troppi giri di parole, dichiara di odiare la musica, o almeno di averla odiata.

“Questo album è il risultato di un anno e mezzo, durante il quale ho un po’ odiato la musica. – ci confessa – Dopo il talent (Michele è il vincitore di X Factor 7, ndr) ci sono state un sacco di cose belle, ma anche tante cose un po’ più nere e negative. Ero arrivato a un punto in cui ascoltavo la musica poco volentieri, avevo poca voglia di cantare, persino gli altri mi dicevano ‘Ma questa musica la odi proprio!’. Poi c’è stato un momento in cui ho capito che se una persona odia tanto una cosa è perché non riesce ad amarla come vorrebbe, altrimenti ne sarebbe indifferente”.

Ha appena 21 anni Michele, ma si porta dietro una consapevolezza da artista vero. E chissà che il talent, come genericamente lo chiama, non gli abbia fatto più male che bene, a lui che ha sentito tutto il peso della “confusione messa sul piatto della popolarità”, tanto da sentire il bisogno – dopo l’album A passi piccoli, prodotto sotto l’egida della Sony – di prendersi il suo tempo e raccontare la sua verità su YouTube, ottenendo non solo, meritatamente, la qualifica contemporanea di ‘YouTuber’, ma riuscendo anche ad instaurare un rapporto personale e profondo – sprovvisto di filtri – con i fan.

Il Michele Bravi di I Hate Music è un Michele diverso, che ha cambiato etichetta discografica (ora Universal), ma anche il linguaggio e il modo di esprimersi, partorendo sette brani (più una cover) conditi da un pop elettronico e rigorosamente in inglese.

 

“Nemmeno io mi sarei aspettato di fare un album totalmente in inglese. – ammette – Quando tu inizi a scrivere però, non ti chiedi troppo. È un flusso di coscienza, lasci che le parole vengano da sole insieme alle note. Una volta che ho finito di scrivere le canzoni, mi sono chiesto se fosse il caso di domarle e riscrivere un testo in italiano. Mi sono risposto di no, perché se le cose nascono in un modo, una ragione c’è”.

Il primo singolo ufficiale, The Days, è forse l’esponente più significativo di questa trasformazione, essendo il pezzo a cui Michele è più “affezionato”: “Ho impiegato un anno a finirlo, proprio perché racconta il mio momento nero e il modo in cu poi mi sono tirato su” ci spiega, mentre a proposito dell’unica cover dell’album, The Fault in Our Stars del noto youtuber australiano Troye Sivan, confessa di averla scelta in quanto “spiegava perfettamente il mio periodo, è la canzone che ho più ascoltato ultimamente”.

Ora Michele si dichiara lontano da quella fase buia, “più libero, più scanzonato e anche più arrogante” – perché ci vuole anche arroganza per costringere gli altri ad ascoltarti – eppure non rinnega ciò che era (“Michele è entrambe le cose. – ammette – Ma è cambiato”) e si sorprende ancora del potere della musica (“Questo album è stato uno sfogo. È assurdo, io non devo soldi a nessuno, ma tutti ascoltano le mie paranoie”, scherza). Cosa sarà del Michele futuro però non è dato saperlo: il cantautore non si chiude all’italiano (“È una ricerca che sto portando avanti”) e paragona gli album agli abiti, che cambiano a seconda dei gusti di chi li possiede.

“Credo che un album non possa rappresentarti per più di un anno o due. – mi spiega – Le persone piano piano cambiano. So che questo è il perfetto riassunto dell’ultimo anno, quindi forse tra un po’ mi sentirò stretto in queste canzoni. È un po’ come gli abiti, all’inizio sono perfetti, poi col tempo si logorano e devi comprarne di nuovi. Adesso però sto comodissimo, quindi mi tengo questi”.