L’1 settembre esce V, il nuovo album di Ensi. Ecco la nostra intervista.

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L’1 settembre arriva finalmente V, il nuovo album di Ensi che – con un titolo decisamente iconico – rappresenta la summa perfetta del percorso dell'artista e dell'uomo. Sono passati infatti tre anni da Rock Steady e tante cose sono successe nella vita di Jari, sconvolgendone le priorità senza travolgerne tuttavia l'identità artistica, che ne esce semmai evoluta.

Anticipato dal singolo Tutto il mondo è quartiereMezcal, da V il 25 agosto verrà estratto anche Iconic, il nuovo singolo prodotto da Vox P. Nella tracklist spiccano inoltre importanti featuring con Il Cile, Clementino, Luchè e Gemitaiz & MadMan. Ci siamo fatti raccontare direttamente da Ensi com'è nato questo album e cosa rappresenta per il rapper.

Ciao Ensi. Partirei subito dal titolo dell’album, V, che lascia chiaramente intendere quanto sia importante questo lavoro per te. Non a caso lo hai definito il tuo album migliore, come mai?
Lo considero il miglior album soprattutto per l’equilibrio tra il contenuto e la forma e perché credo di essere riuscito a esorcizzare un po’ di demoni. Il disco è molto personale, c’è tanto della mia vita vissuta, c’è tanto del mio passato e del mio presente. Inevitabile dunque che la V fosse ridondante e non è un caso che abbia scelto questo titolo quando il disco era ormai finito e mancavano solo da sistemare le ultime cose. Mi sono accorto di quanto in realtà il concetto della V, espresso nelle varie sfaccettature che avevamo attribuito all’album, fosse perfetto.

Mi spieghi in che senso?
Mio figlio si chiama Vincent ed è il mio presente. Diventare padre è stata una rivoluzione, mi ha fatto maturare. Poi ho 31 anni, ho fatto in un certo senso il giro di boa e, se mi guardo alle spalle, vedo i miei 10 anni di percorso nella musica rap e la V di Vendetta, il titolo del mio primo album uscito nel 2008, che l’anno prossimo compirà quindi 10 anni. C’è anche il mio passato, perché il mio cognome è Vella. Alcune canzoni, come Ribelli senza causa, in questo senso parlano di vita e non di rap, della mia adolescenza o della mia famiglia, come Mamma diceva. Anche in Vincent ci sono riferimenti a mia madre. A tutto ciò, aggiungi che V è il mio quinto disco ufficiale, quindi il numero romano è perfetto.

Parliamo della tracklist, visto che ci siamo.
Penso che abbia un senso compiuto, anche durante l’ascolto. Penso che V sia il mio album migliore per una serie di fattori, dalla qualità – per cui devo ringraziare tutto il mio team – alla scelta delle produzioni, passando per i featuring e i produttori affiliati. Da questo punto di vista, dopo questi tre anni in cui mi sono disintossicato da questo ambiente, sono aspetti che mi hanno molto favorito e che vanno un po’ in controtendenza rispetto alla volontà della discografia e della società, che vanno velocissimo. Ci chiedono un disco all’anno e 100 stories su Instagram e spesso, se fai parte del gioco, diventa semplice lasciarsi trascinare. Nella vita però possono accadere anche cose che ribaltano le tue priorità, come diventare padre, appunto.

Cosa succede quando la vita cambia le carte in tavola?
Fai un passo indietro. Ripeto: è il mio album migliore anche per il processo umano, oltre che per il grande lavoro artistico che comunque raccoglie tutte le sfumature dell’album, dalla grafica alle foto. Mi piace il fatto di essere riuscito forse la prima volta a confezionare un progetto che mi rappresenta al 100%.

Sono molto interessata a questo processo umano di cui parli. Come sei riuscito a metabolizzare tutto e a trasferire i cambiamenti nella tua musica, rimanendo però fedele a te stesso?
Chi conosce la mia discografia sa che cerco sempre un’evoluzione coerente della mia musica e non cerco mai di fare una fotografia del momento. Motivo per cui anche questi tre anni di stop – doverosi, voluti e cercati – mi hanno permesso di riuscire a guardare con distacco verso tutto ciò che succede e a farmi una mia idea che possa andare d’accordo col mio personaggio e col mio modo di fare musica. Resto sempre connesso all’ambiente che mi ha generato, quello dell’hip hop italiano, verso cui sento un’appartenenza predominante che si percepisce per me anche all’interno del disco. L’ho fatto senza adagiarmi però sulle sonorità del momento, ma cercando sempre di trovare un punto di incontro tra le mie passioni. Oggi il sound che va per la maggiore nel mondo è un suono molto cool, per cui non è che le sonorità moderne mi stiano antipatiche o  che le veda lontane da me. Nel disco anzi troverete anche momenti ispirati al sound attuale, ma sono fiducioso per il modo in cui sono andato incontro a queste sonorità.

Vale a dire?
Il disco l’ho metabolizzato da dicembre 2016 a maggio del 2017, un periodo abbastanza corto se consideri che con il team abbiamo fatto la maggior parte del lavoro e delle produzioni in casa, partendo da zero. Devo ringraziare per questo Vox P, Dave e Old Ass, che hanno lavorato con me anche alle foto e alla grafica. Riscoprire a 31 anni che la musica e la scrittura servono principalmente a me è stata una bella sorpresa. Quando la passione diventa una professione, succedono tante cose e si fa in fretta a perdere di vista l’ago della bilancia e a farsi trascinare tra i vari allineamenti. Invece credo che questo detox a tutto mi abbia fatto bene e penso che la mia maturità in questo album si senta. Non ho la presunzione di dire di aver fatto un disco per un pubblico esclusivamente adulto, però credo che chi abbia più di 25 anni abbia le chiavi per sbloccare i codici di questo lavoro.

Ecco, come hanno reagito i tuoi fan ai primi singoli?
Ho visto il ritorno di un pubblico molto giovane e questo mi fa piacere. Si concretizza un po’ il mio status di semi-leggenda del rap italiano. Ancora non lo sono, forse perché dovrei morire per diventarlo (ride, ndr), però ho un percorso alle spalle fatto di piccoli passi e credo che la gente lo riconosca. Nel 2017 mi presento con un disco attuale che però riesce a colmare un gap secondo me tipico dell’hip hop italiano, quello del contenuto, dell’interpretazione. Spesso ci troviamo di fronte lavori ben confezionati che sembrano però un’unica grande canzone, una grande base con un grande testo e invece qui si sente la mia passione per l’hip hop in generale, frutto delle mie influenze. Abbiamo giocato molto sull’imprevedibilità, anche se secondo me è tutto amalgamato molto bene, sia nei testi che nella musica.

Avverto questa tua identità soprattutto in un featuring, quello con Il Cile. Identità è un brano molto rock, a dimostrazione del fatto che sei riuscito a fondere diverse identità musicali e a crearne di nuove, adattandoti ai tuoi partner. Ovviamente è un complimento.
Ti ringrazio molto, perché questa è stata proprio una cosa pensata. Non tanto nei featuring rap, perché se chiamo un collega e un amico che conosco e che condivide la mia lingua – in altre parole mangiamo lo stesso pane e beviamo lo stesso vino – diventa più semplice. Ti scegli una bella base e si trova un leit motiv o un argomento che ci sta a cuore. Con Luchè, Clementino, MadMan e Gemitaiz è successo questo. Con Il Cile è stato diverso, perché avevamo in mente proprio di fare una canzone che avesse questa impronta, con la parte delle strofe più core in cui io dico la mia su alcune cose e metto alcuni puntini sulle i.

Su cosa ci tenevi in particolare a dire la tua?
Volevo mostrare la mia visione della musica, facendo un parallelo con la vita quotidiana. Parlo di meritocrazia e del fatto che oggi comandano i social. “Non basta che mi segui, basta che mi credi” dico ad un certo punto e per me è importante. Seguire vuol dire mettere un like o toglierlo, mentre credere è tutta un’altra storia. Credo di rappresentare un ambiente e un’identità, quella dell’hip hop italiano, ma oggi in particolare – in un momento così punk – ho proprio voglia di rivendicarla. Viviamo una fase di crossover, in cui anche le collaborazioni tra gli artisti sembrano essere fatte a tavolino, in base al numero dei fan. Io ho chiamato Il Cile, che nell’ambiente dell’hip hop italiano viene anche visto un po’ di traverso dopo la hit con Ax, però quando ci siamo ritrovati grazie ad amici in comune abbiamo parlato molto anche di rap italiano. Ho scoperto che è un grande fan, che colleziona dischi anche degli anni ’90 e abbiamo parlato molto anche in macchina, mentre andavamo verso lo studio. Quando siamo arrivati lui voleva cantare il ritornello del primo brano, Ribelli senza causa, perché gli piaceva molto. Io gli ho fatto sentire altre cose e gli ho proposto invece Identità. Si è messo nella sua stanza con la chitarra, ha tirato fuori gli accordi e scritto le parole in mezz’ora. Ci siamo incontrati una seconda volta con Ermanno Fabbri, il suo chitarrista, e abbiamo rifatto completamente la parte strumentale. È venuta fuori un’altra canzone.

Che avete tenuto però…
Sì, c’è questo switch in cui il brano sembra cambiare completamente, ma che secondo me funziona benissimo. L’obiettivo era proprio quello di creare qualcosa del genere, alla Walk This Way degli Aerosmith e dei Run-DMC, con le dovute differenze. Volevamo riprodurre quell’energia, non so se ci siamo riusciti ma per me l’impatto è forte.

Parliamo invece dei singoli. Avevamo parlato già di Tutto il mondo è quartiere, Mezcal mi sembra un brano un po’ più duro. Come mai hai scelto di rilasciarlo?
Nel disco per me c’è un equilibrio perfetto tra pezzi crudi e brani in cui mi limito a raccontare delle cose. Questo perché gli aspetti principali dell’album sono tre: io come rapper, io come padre e io come uomo. In alcuni casi questi tre aspetti si mescolano, in altri sono ben definiti. Come Mezcal. Chi ascolta questo genere sicuramente sentirà questo brano più suo. Penso che Mezcal stia facendo un bel rumore proprio nella scena del rap ed è anche doveroso, perché oltre a lavorare per un discografica – il che mi obbliga a fare pezzi comunque condivisibili da una grande massa, e non sto screditando – ci tengo a questa appartenenza. C’è tanto rap italiano in questa tracklist ed è un disco rap, su questo non puoi sbagliare. Mezcal per me significa proprio questo: mostrare la mia visione e dire la mia presa di posizione in questa scena. La visione non è negativa nei confronti di ciò che è diverso da me, ma ci tengo a prendere le distanze. Non scredito gli altri, do credito a me e al mio percorso.

E i feedback?
Sono stati importanti, sia quelli dei colleghi che quelli del pubblico più giovane, che magari mi conosce anche poco e solo per i featuring fatti. I tempi però sono molto veloci e, avendo fatto un album tre anni fa, ti dico sinceramente che non mi aspettavo questo riscontro. Non davo per scontato che i ragazzini con le orecchie ben pulite da questo nuovo sound potessero apprezzare così tanto anche il mio lavoro. Questo fa ben pensare, vuol dire che c’è voglia di ascoltare anche musica più solida.

L’ultima domanda te la faccio su una canzone che reputo molto rappresentativa di questo tuo percorso, In Volo, la tua prima canzone in cui non fai rap. Vuol dire che ti sei messo proprio in gioco…
Esatto, l’idea era proprio quella. Se noti, ho inserito questo brano nella tracklist anche come spartiacque: arriva nel momento più divertente dell’album. In volo ha avuto una gestazione molto particolare, perché è stato uno di quei brani che ho scritto mettendo la penna sul foglio senza staccarla mai. Nell'album sentirete la produzione di Vox P. e gli arrangiamenti di Marco Zangirolami, che è un grande musicista. All’inizio però c’erano solo la batteria e il piano, una melodia con una malinconia di fondo un po’ speranzosa, una struggle feliciona. Volevo proprio rendere l’idea di mettere il telefono di modalità 'in volo', di staccarsi dal mondo, perché spesso purtroppo siamo incollati ai social. Io sono meno vittima di altri, perché grazie a Dio sono pieno di cose molto umane da fare, ma ciò non toglie che anche io devo averci a che fare tutti i giorni. A volte non hai voglia di stare dietro a tutto e penso che mettere il telefono in modalità 'in volo' sia l’equivalente odierno del classico ‘Prendo tutto e me ne vado’. Se oggi hai il telefono spento mezza giornata, sei obiettivamente fuori dal mondo. Ho scritto delle melodie perché volevo fare il ritornello cantato. Non ho nessuna velleità canterina, perché non ho un’estensione vocale. Ho più una comfort zone e quindi mi sono buttato. Il rap non c’entrava niente però, per cui ho messo a posto le parti che avevo e una volta cantato ho capito che era la mia ballad. Ci ho pensato un po’, l’ho fatta mantecare per settimane e poi mi sono reso conto che il pezzo era efficace e uno di quelli di cui sono più soddisfatto. Penso addirittura che sia più hip hop di tante cose che escono oggi. Non so suonare la chitarra, se no facevo un bel video unplugged (ride, ndr).

Nel prossimo album magari…
Vediamo… ci sarà tempo!