Anche quest'anno torna a Chiaverano (TO), per il sesto anno consecutivo, il Festival A Night Like This, che ormai ne ha fatta di strada dagli esordi e che – il 14, 15 e 16 luglio – porterà il meglio della musica indie italiana e internazionale nel borgo medievale nei pressi del Lago Sirio.

La line-up è come sempre ricchissima, così come l'offerta che circonda il mondo prettamente musicale dell'evento, ma abbiamo chiesto a uno degli organizzatori – Cecilia – di raccontarci il Festival dal suo punto di vista. Ecco la nostra intervista.

Ciao Cecilia, A Night Like This è un festival con una location pazzesca e una line-up unica. La mia domanda però è: qual è, per voi organizzatori, la mission finale di questo evento? In poche parole, cosa volete offrire al pubblico?
Ormai è il sesto anno che ci occupiamo dell’organizzazione di A Night Like This, questo un po’ aiuta. La mission è cambiata nel corso del tempo: siamo un gruppo di musicisti e di gente appassionata, siamo volontari e ci autoproduciamo. Non abbiamo sponsor. Tutto è partito molto in piccolo, ma l’idea era chiara: volevamo fare qualcosa per i musicisti e per la musica, qualcosa di ricercato e non la solita roba 'commercialona' per fare cassa, anche perché non avevamo i mezzi per farlo. Cercavamo artisti nuovi o, se non nuovi, che fossero artisti che potessero offrire un concerto interessante. Già dal primo anno la situazione però ci è sfuggita di mano e abbiamo fatto più di ciò che ci eravamo ripromessi. Abbiamo buttato dentro tutto ciò che potevamo e la prima edizione è venuta più grande del nostro intento iniziale. Piano piano poi il festival è andato crescendo ed è giusto così, non potrebbe essere altrimenti.

Immagino ci siano però anche tante difficoltà…
Tantissime! Siamo in provincia, in un posto bellissimo che abbiamo scelto volutamente, perché volevamo abbinare musica e cibo di qualità a un’esperienza che potesse essere a 360 gradi, visto che la location è vicina sia a Milano che a Torino. Il problema è che è quasi sconosciuta, questa cosa ci ha spiazzato all’inizio. Ci siamo detti: com’è possibile? Ha degli angoli fantastici: il lago, ad esempio, dove facciamo i live, sembra un fiordo norvegese. Il che rende le cose difficili anche per chi deve portare gli strumenti da fuori. Un altro aspetto complicato è fare la line-up, anzi è la cosa più difficile, ma anche la più stimolante.

Come mai?
Andiamo a cercare le cose che ci interessano, però arrivano spesso anche proposte, per cui partiamo con un’idea che poi inevitabilmente si allarga a dismisura (ride, ndr).

Be’, la line-up di quest’anno mi sembra ricchissima.
Ci proviamo con tutto il cuore. Inutile dire che fare booking, soprattutto quello internazionale, è molto complicato in Italia. A maggior ragione se non hai nomi super-conosciuti, che è poi il nostro caso. Abbiamo nomi forti, ma non in senso commerciale. Devi beccare il momento giusto, essere in linea con le loro date e non sovrapporti ad altri festival all’estero, dove c’è anche più pubblico. Noi ci siamo però messi in testa che la line-up si forma da sola. Se una cosa non funziona, si autoelimina. Ed è proprio come un puzzle: all’inizio sembra un casino, poi a mano a mano si aggiusta.

Hai detto che in questi anni è cambiata la mission del festival. In che senso? Come sono cambiate le vostre aspettative e com’è cambiato il pubblico negli anni?
Il pubblico è cresciuto, anche se forse – se fossimo stati in una grande città – sarebbe stata una crescita esponenziale. Invece la crescita è stata costante, ma graduale, perché portare la gente in un paesino sconosciuto di provincia è complicato. Da un lato vivono il preconcetto, rispetto alla grande città, che vengano ad una ‘fiera di paese’. Dall’altro, sei appeso al meteo, essendo un festival open air. La nostra autostima è comunque cresciuta, perché tante band che sono passate da noi l’anno dopo iniziavano a diventare conosciute e ad andare in radio. Oppure sono andate al Primavera Sound o allo Sziget. Dal punto di vista della direzione artistica, insomma, niente da eccepire. Siamo fermamente convinti che in qualche modo lo scouting che facciamo sia ottimo, ci rende orgogliosi. Ti faccio dei nomi: Wrongonyou, Cosmo, Iosonouncane. Gli artisti ci riconoscono questo merito: si propongono per il nostro Festival, sapendo che poi c’è una sorta di rilancio verso cose più grandi di noi. E’ un festival piccolo, con una direzione artistica grande. 

La musica è protagonista, ma l’esperienza che offrite è molto più ampia.
Sì, con 38 gruppi la musica non potrebbe non essere protagonista. L’offerta intorno alla musica cambia però ogni anno. Abbiamo sempre avuto un mercatino handmade con artisti della Triennale, in altre occasioni organizzavano delle mostre estemporanee con materiali di riutilizzo trovati nel bosco, con cui realizzavano oggetti che sono rimasti a Chiaverano. C’è un enorme albero scavato nella piazzetta, diventato proprio una sorta di panchina. Quest’anno abbiamo puntato sui bambini e le famiglie, volevamo proprio incentivare questo aspetto, perché è difficile che le famiglie percepiscano questo Festival come adatto a loro. Io penso che sia invece istruttivo e divertente: abbiamo un prato gigantesco e un parco giochi attrezzato per i laboratori creativi, lì venerdì ci saranno i raggazzi de Lastanzadigreta con un loro laboratorio in cui realizzeranno strumenti musicali. Prima i ragazzi della scuola di musica di Chiaverano suoneranno proprio con questi strumenti.

Coinvolegete tantissimo anche il Comune quindi…
Più che il Comune, il maestro della scuola di musica del paese (ride, ndr). Poi ci saranno sempre mostre di artisti della Triennale e di Ivrea, mentre sabato ci sarà Gomma (Piccolo e Gioioso Festival d'Illustrazione), che porta una trentina di illustratori italiani qui da noi per avere alcuni dei loro lavori in mostra. 

E a proposito del food?
La proposta è molto ricca, cerchiamo di non offrire tantissime cose, di offrirne 5-6, ogni anno diverse e differenti l’una dall’altra. Quest’anno abbiamo gnocchi fritti, verdure, pizza con il forno a legno… E’ chiaro che ci devi mettere anche l’hamburger, ma proviamo un po’ a variare. Ci sono un sacco di cosine da provare, anche mentre ci si muove da un palco all’altro. All’estero non è inusuale, ma in Italia siamo stati quasi i primi a fare questa pensata di passeggiare tra vari concerti.

Ecco, a questo proposito, ora in Italia sta crescendo l’esperienza del Festival. Come state vivendo voi questa trasformazione?
Quando abbiamo iniziato in Italia c’erano o Festival con grandi sponsor, il cui ritiro però rischia di provocare la fine del festival, o eventi come il Mi Ami. Noi siamo partiti subito con tre palchi, anche per un fatto pratico perché avevamo molti gruppi che volevano suonare in acustico. Io sono contenta che ci siano tanti festival, l’importante è che si resti però con una personalità precisa. Anche perché in quel caso diventa difficile ‘copiarti’, possono esserci somiglianze nella struttura e nella logistica, ma la line-up deve essere diversa per forza. Il Festival con la line-up fotocopia non lo faremo mai, anche se qualche artista magari suona da qualche altra parte. Spero che la gente alla lunga recepisca questa cosa, perché a volte sembra che il pubblico cerchi solo i grandi nomi.