Shablo insieme a Guè, Joshua e Tormento portano l’hip hop più autentico sul palco del Festival di Sanremo. Primo passo di un progetto più ampio: l’intervista.

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Un capolavoro in termini di espressione, citazioni, sonorità: un brano senza tempo che omaggia il genere nel modo più elegante e stiloso possibile. Possiamo solo dire grazie. Queste le impressioni di funweek dopo il primo ascolto di La mia parola, brano con cui Shablo sale per la prima volta sul palco del Teatro Ariston. Con lui una formazione di prim’ordine formata da Guè, Joshua e Tormento a cui si unisce, nell’attesissima serata delle cover, Neffa per la cover di Aspettando il sole. Idee chiare e visione nitida sono alla base della scelta del producer e manager di uscire dall’ombra, con un progetto che va oltre la kermesse musicale più seguita d’Italia.

Cosa rappresenta Sanremo per te?
Sul festival ormai si è detto di tutto ma Sanremo è una vetrina incredibile. Se gestito bene, può portare risultati notevoli: è l’unico evento capace di portare un brano in Top Global su Spotify, cosa che altrimenti in Italia succede molto raramente. Non partecipo per la classifica o per vincere, ma per dare visibilità al mio progetto artistico, che vuole essere una rottura rispetto alla musica contemporanea. Non è una battaglia contro qualcosa o qualcuno, ma un’esigenza artistica. Mi sento responsabile, in parte, dell’omologazione che oggi vediamo nella musica italiana: la trap, che oggi molti criticano, quando l’abbiamo introdotta in Italia nel 2016 era una novità, un movimento rivoluzionario. Oggi, invece, è diventata la norma. Per questo voglio tornare indietro e riprendere sonorità diverse: paradossalmente, riportare un certo tipo di musica nel 2025 è più innovativo che continuare a fare trap.

Shablo
Foto da Ufficio Stampa

Arrivi per la prima volta sul palco di Sanremo con La mia parola, un brano che unisce tre generazioni di artisti. Questo passo, per te, rappresenta più una chiusura di un cerchio o l’inizio di uno nuovo?
Direi entrambe le cose. L’idea di mettere insieme tre generazioni mi è sembrata perfetta: c’è Tormento, che per tutti noi è stato un’ispirazione, soprattutto per me e per Guè, che da adolescenti seguivamo i Sottotono. Poi c’è Guè, mio coetaneo, con cui sono cresciuto artisticamente. Infine, c’è Joshua, che rappresenta la nuova generazione di artisti, in particolare quelli afroitaliani di seconda generazione. Chi meglio di lui poteva portare questa tradizione e questa cultura in maniera fresca?

Che obiettivo vi siete posti per il vostro festival? E che performance stai preparando?
Uno degli obiettivi principali per me, per noi, al Festival di Sanremo è portare la figura del produttore a essere riconosciuta come un vero e proprio artista, alla pari di un cantante. Per questo motivo, ho ideato una performance che rispecchia il brano e il mondo che rappresento, con elementi come lo scratch e il beatmaking con i campionatori, riportando il rap alle sue origini, quando tutto nacque da un DJ con i giradischi. La console che userò è stata creata appositamente e sarà posizionata centralmente sul palco, come elemento artistico principale, e non relegata lateralmente. Inoltre, ci saranno alcune sorprese che preferisco non rivelare, ma posso anticipare che la performance avrà anche un forte elemento corale.

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Come è stato l’incontro con l’orchestra e come sono andate le prove finora?
Le prove sono andate molto bene. Tormento, con la sua esperienza trentennale, esegue alla perfezione le doppie voci sporche tipiche del rap, sincronizzandosi esattamente con la registrazione. Guè, dal canto suo, mantiene la sua precisione impeccabile. Inoltre, Neffa rappresenta per noi un elemento simbolico fortissimo nella serata cover: lui, che in passato aveva già calcato il palco dell’Ariston con i Sottotono in un’esperienza controversa, ora ritorna in un contesto completamente diverso e con un nuovo spirito. Questa scelta rappresenta per noi una vera rivoluzione.

In che misura potrai ritenerti soddisfatto della tua partecipazione al festival?
La sfida è riportare riferimenti vintage, possiamo definirli così, ma con un’estetica contemporanea. Non vogliamo fare un tributo al passato, ma dimostrare che il passato può rivivere oggi attraverso una rivisitazione. La sfida è far sì che le cose non suonino mai vecchie, ma che portino con sé quel fascino che magari oggi manca nella musica contemporanea, che spesso suona un po’ “di plastica”. La musica urban di oggi ha una storia che risale a decenni fa, e in parte anche a secoli di musica nera. Molti oggi ascoltano l’urban senza conoscere questi riferimenti, quindi per me è importante riportarli, cercando di rendere il tutto fruibile anche per chi non li conosce.

Tra l’altro, uscirà un video molto bello che completerà il brano, pieno di riferimenti culturali, come quelli ai film di Spike Lee negli anni ’90. Il regista è Enea Colombi, che ha accettato di lavorare con noi nonostante faccia pochi videoclip, essendo ormai concentrato su pubblicità e progetti internazionali. Il video sarà esteticamente coerente con il brano e avrà forti citazioni dal cinema Blaxploitation di quegli anni.

Shablo
Foto da Ufficio Stampa

Come vedi gli altri artisti in gara?
Ci sono tanti talenti in gara, molti dei quali appartengono al mondo urban e rap di oggi. Alcuni sono amici, altri sono artisti con cui avremmo potuto collaborare per delle performance interessanti. Giorgia è una delle artiste che più stimo: ha sempre tratto ispirazione dal jazz, dall’R&B e dal soul. Gaia, che è una mia artista, ha una grande vicinanza al mio mondo musicale, con influenze sudamericane e brasiliane. Con lei abbiamo deciso di invitare Toquinho, una vera leggenda della musica.

La nuova etichetta Oyster Music: la scena urban ieri oggi

Dopo tanto tempo dietro le quinte da manager e producer, cosa ti spinge a salire sul palco (di Sanremo, fra l’altro) e pubblicare un progetto personale?
Credo che sia stata la voglia di esprimermi in un modo più personale. Credo sia un insieme di fattori che si stanno unendo: la mia partecipazione a Sanremo, il mio disco ma anche un anche un certo tipo di mentalità che condivido con Guè. Lui ha sempre fatto ciò che voleva e ha sempre lottato per la sua libertà artistica, per la sua visione, senza compromessi.

A dirlo noi potrebbe sembrare un controsenso, perché in un certo senso siamo stati tra i responsabili di quello che oggi è diventato il genere urban in Italia. Per alcuni è stato un merito, per altri forse la rovina della musica italiana. Però la verità è che, quando abbiamo portato quello che oggi chiamiamo urban, era un momento storico in cui questa musica non esisteva nelle classifiche e nel mercato italiano.

Che cosa vi proponete con l’etichetta Oyster Music?
Guè l’ha definita in maniera simpatica ‘Luxury Music’. Il concetto del vero lusso, in questo caso, è poter fare la musica che si ama, senza dover sottostare alle dinamiche di mercato che spesso condizionano negativamente la creatività e la produzione artistica. Quando un artista è ossessionato dai numeri, è difficile fare musica di qualità. Bisogna, invece, tornare all’intento originale: la passione, il divertimento. E poi succederà quello che succederà. Nella nostra esperienza, abbiamo visto che i grandi successi sono sempre nati da momenti di puro divertimento in studio, senza pensare troppo al risultato finale. L’idea è proprio questa: riportare il gioco nella musica, come quando abbiamo iniziato in un periodo in cui non esisteva un vero mercato per questo genere. Non bisogna focalizzarsi solo sul risultato, ma godersi il processo creativo.

Come è cambiata la scena urban rispetto a quando avete iniziato una decina di anni fa?
Quando abbiamo portato in Italia ciò che oggi è considerato urban, la situazione era completamente diversa. Questo genere non dominava le classifiche, non esisteva un vero mercato strutturato. Tutto è cambiato con la rivoluzione digitale del 2016: artisti come Sfera Ebbasta e tanti altri che abbiamo sostenuto hanno lavorato duramente per arrivare dove sono. All’epoca non facevano i numeri di oggi, non erano così influenti. Poi la loro musica ha iniziato a impattare sul mercato, creando una nuova generazione di artisti. E tutto ciò ha portato quasi a una saturazione per cui siamo passati da un estremo all’altro.

Quando abbiamo fatto quella piccola rivoluzione, sapevamo di poter offrire una visione diversa da quella dominante all’epoca, caratterizzata dalla musica leggera e da un certo tipo di pop. Il rap faceva fatica a emergere. La nostra generazione ha cambiato le regole, e oggi vediamo che forse la situazione è un po’ sfuggita di mano. Tanti hanno adottato gli elementi che abbiamo introdotto, ma forse perché c’era un bisogno naturale di evoluzione.

Come vivi, ora, questo cambiamento generazionale?
C’è una nuova generazione che si è riconosciuta in questa musica e in tantissimi hanno iniziato a voler fare gli artisti. Io sono ovviamente felice di questo cambiamento, ma appartengo a un’altra storia, a un’altra generazione. Per questo ho sentito l’esigenza di tornare a fare musica, non con l’ossessione dei numeri o delle classifiche, ma con lo spirito originale che mi ha fatto iniziare 30 anni fa. Anche il brano di Sanremo e tutto il progetto a cui sto lavorando nascono con l’idea di tornare alle origini della musica urban. A tutto quel mondo black, soul e jazz che negli anni ‘90 era la grande ispirazione per i rapper dell’epoca. Allora tutto nasceva dal campionamento, dallo scavare nel passato per riscoprire la musica degli anni ‘60 e ‘70, ricercarla e reinterpretarla.

Pensi che questa attitudine alla ricerca musicale si sia persa oggi?
Oggi, purtroppo, molti artisti più giovani non fanno questa ricerca musicale, ma si limitano a seguire le tendenze del mercato. Credo che sia importante riscoprire le radici della musica, perché tutto torna in maniera ciclica. Penso che stiamo assistendo a un ritorno di questo desiderio di esplorare il passato musicale. Inoltre, credo che la mia generazione, tranne pochi nomi, non sia riuscita a mantenere un legame forte con la nuova ondata di artisti. Questo è qualcosa che piacerebbe a me e a Guè: riuscire a portare in maniera contemporanea quelle influenze che ci hanno ispirato quando abbiamo iniziato.

Oggi Guè è una grande fonte di ispirazione per tantissimi giovani artisti, e piacerebbe anche a me riportare quel suono che per me è stato fondamentale. A Sanremo sentirete tutta questa ispirazione gospel, soul e blues, e la ritroverete ancora più approfondita nel progetto su cui sto lavorando. Questo è il fil rouge che lega tutto il mio percorso musicale.

I testi dei rapper e trapper, oggi, sono oggetto di molte critiche: come ti poni rispetto a questo?
Alcuni testi oggi sono banali o superficiali, ma altri non vengono semplicemente compresi. Lo stesso Guè viene spesso sottovalutato e ridotto all’immagine di chi scrive solo testi futili, ma in realtà la sua scrittura ha molteplici livelli di lettura. Guè è come un attore che interpreta un personaggio in modo magistrale, con una penna unica. Il rap, forse, ha perso un po’ dello spessore delle origini, ma rimane una forma d’arte capace di raccontare l’interiorità delle persone in modo libero, esattamente come il cantautorato.

La musica deve avere libertà di espressione: criticare un testo è legittimo, ma censurarlo è un errore. Oggi si tende a rivedere persino scritti degli anni ‘60 per renderli politicamente corretti, ma così si uccide l’arte. Autori come Bukowski, oggi, non potrebbero più scrivere liberamente. La libertà artistica è essenziale: se un contenuto non piace, si può scegliere di non ascoltarlo, ma non dovrebbe essere cancellato.

L’arte è uno specchio della società. Se non ci piace ciò che i giovani artisti raccontano, non possiamo prendercela solo con loro: il loro modo di esprimersi è il riflesso di una cultura, di una famiglia, di un’educazione. Il punto non è nascondere i problemi sotto il tappeto, ma osservarli, prenderne coscienza e proporre delle alternative.

Oggi le carriere degli artisti sembrano essere sempre più brevi. Come si può costruire un percorso più solido e duraturo?
Negli ultimi anni, le carriere degli artisti si sono accorciate drasticamente. Molti puntano solo alla hit del momento, ma questa è una gara che si vince sul lungo termine. La carriera di un artista deve avere basi solide, non può durare due o tre anni e poi svanire. Per questo è fondamentale recuperare il senso di progettualità e non lasciarsi trascinare solo dalle tendenze del momento. Tornare a fare musica con libertà e passione aiuta a costruire qualcosa che resti nel tempo.

Quanto è importante, allora, il legame tra generazioni nella musica?
Viviamo in un’epoca in cui tutto è veloce: le canzoni durano una settimana o un mese e poi vengono considerate già vecchie. Allo stesso modo, si ha spesso l’impressione che, superata una certa età, un artista non sia più rilevante nel mercato attuale. Ma la realtà è ben diversa: Guè, Marracash e tanti altri della nostra generazione stanno dimostrando che non solo sono ancora attuali, ma continuano a essere un punto di riferimento per i più giovani. Credo sia importante dare spazio al nuovo, e ho sempre lottato affinché le nuove generazioni potessero superare le precedenti. Tuttavia, è altrettanto fondamentale che la tradizione rimanga solida, per tramandare insegnamenti e valori. Solo così si può costruire qualcosa di duraturo.

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