Agglomerati di case sovraffollate e vere e proprie emergenze sociali. Questo sono diventati i campi profughi in Libano. Oggi, la situazione sta peggiorando: oltre ai palestinesi si sono aggiunti altri profughi, provenienti soprattutto dalla Siria ma la superficie a loro destinata è la stessa da 70 anni. E a Shatila, teatro dello storico massacro dell’82, le cose non vanno meglio.

Li chiamano campi profughi, nati per accogliere chi per varie ragioni ha dovuto abbandonare la propria terra. Quelli in Libano, sono diventati una delle vergogne dell’umanità. Nascosti agli occhi del mondo, un agglomerato di persone senza terra che sopravvive nel limbo dell’attesa.

Sono stati i palestinesi prima – partire dagli anni 1947-48 a seguito del massacro sionista – e i siriani oggi, a varcare la soglia di questo inferno in terra. In mezzo, sono arrivati anche iracheni, africani, indiani, curdi.

Parliamo di circa 450 mila rifugiati palestinesi registrati nel Paese dei cedri e ospitati nei 12 campi ufficiali ai quali da 70 anni il Comitato italiano per l’UNRWA, parte integrante della struttura dell’Agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, fornisce assistenza e protezione. A loro, negli ultimi anni, si sono aggiunti quasi 2 milioni di disperati, famiglie intere scappate dalla guerra in Siria.

Numeri, che ci consegnano uno scenario devastante, destinato inevitabilmente a peggiorare: una bomba di degrado e disumanità pronta a esplodere.

Basta ascoltare le testimonianze di chi quei luoghi dimenticati li ha visitati per capire quanto “miserabile” sia la condizione di chi vi è suo malgrado rinchiuso.

La vita nel campo, nella maggior parte delle case, è come in un sepolcro senz’aria, senz’acqua, né sole né corrente elettrica. In poche parole, sono luoghi inadatti alla vita umana, in molti casi neppure degni di animali” raccontava qualche mese fa Kassem Aina dell’Associazione Bait Atfal Alsumud. Era il settembre del 2017 e ci si preparava a commemorare le vittime – per lo più palestinesi e sciiti libanesi- del massacro perpetrato nel quartiere di Sabra e nel campo profughi di Shatila, il 16 e 18 dello stesso mese del 1982 dalle Falangi libanesi e dall’esercito del Libano nel Sud, con la complicità di Israele.

Ed è proprio qui, alla periferia ovest di Beirut, dove ci sono ancora i palestinesi senza terra, diritti, né Patria, che ogni anno il Comitato internazionale “Per non dimenticare Sabra e Shatila” si ritrova per ricordare il drammatico anniversario.

Dalla fine degli anni ’40 del secolo scorso ad oggi, la situazione delle abitazioni è cambiata ma un miglioramento evidente delle condizioni di vita nei campi non si è mai concretizzato.

Basti pensare che il Libano dal 1948 ad oggi non ha mai modificato la superficie destinata a questa forma di “accoglienza” nonostante il numero dei profughi sia aumentato vertiginosamente: “la quarta generazione di profughi vive nella stessa casa e nello stesso campo” racconta Kassem Aina.

Lo sviluppo dei campi, dunque, ha subito una verticalizzazione con “gli edifici crescono in verticale senza fondamenta e senza un piano urbanistico”.

Non ci sono spazi aperti ma solo “vicoli stretti e case sovraffollate” dove non arriva neanche la luce del sole.

Il buio che regna anche di giorno nasconde una vera e propria emergenza sociale fatta di violenza, malattie, ignoranza. E di frustrazione, soprattutto per i giovani rifugiati palestinesi, ai quali il futuro sembra essere precluso da leggi ingiuste e da diritti negati, che non permettono loro di vivere da cittadini, e in alcuni casi neanche da esseri umani. In attesa, nel limbo dei rifugiati per sempre.