‘Andiamo (!)’ torna a teatro, Samuele Barbetta: «Dialogo continuo tra guerra e umanità»

Torna a Roma lo spettacolo Andiamo (!) della compagnia De Anima, fondata dal ballerino e coreografo Samuele Barbetta. L’appuntamento è per martedì 4 aprile alle ore 21.00 presso il Teatro Sala Umberto di Roma. «Il 16 dicembre ci siamo esibiti a Spazio Diamante a Roma, è stato il nostro primo spettacolo teatrale degno di chiamarsi tale, in un contesto solo nostro. – ci dice subito Samuele – È stata una grandissima soddisfazione soprattutto per il riscontro del pubblico. Non è una questione di numeri, il teatro era pieno ma per noi conta più la risposta emotiva. Abbiamo voluto riproporre lo spettacolo e ringrazio Alessandro Longobardi, direttore artistico del Brancaccio, che ci ha dato la Sala Umberto perché credeva in noi».

Ovviamente, come sottolinea Barbetta, il «teatro è più grande e più importante». Di conseguenza, Andiamo (!) verrà allargato («Diventa più lungo e più intenso», confessa il coreografo). «È sempre una scommessa e un rischio. – continua – Abbiamo scoperto con gioia che ci sono persone che torneranno a vederci. Sarà un’esperienza nuova, anche se lo spettacolo al 90% sarà lo stesso. Ma io sono fan del guardare i film più volte».

Andiamo (!), riflessioni sulla guerra

Andiamo (!), grazie alle sue coreografie potenti e delicate, mostra allo spettatore l’orrore della guerra raccontandola dal punto di vista dei civili, delle persone, che vediamo combattere e cercare soluzioni per poter sopravvivere giorno dopo giorno. La guerra irrompe nella loro serenità e nella loro quotidianità, corrompendo tutti i valori a cui teniamo e che ci sono familiari. Il nome dello spettacolo, Andiamo (!), ha un infatti duplice significato: da un lato palesa la forza d’animo del civile, dall’altro significa anche andiamocene, la guerra ci sta privando della nostra terra.

«L’idea era molto precisa nella mia testa. È iniziato tutto nell’agosto 2021, quando c’è stato l’arrivo dei talebani a Kabul. – racconta Samuele Barbetta – Per diverse settimane siamo stati tempestati di immagini di talebani che sequestravano le donne e le privavano dei loro diritti fondamentali. I temi e la simbologia islamica mi toccano molto artisticamente e umanamente mi sconvolgono. A me fanno male queste notizie e non ho paura di dirlo: capisco l’apparato culturale, sociale e religioso di queste situazioni, ma mi ricordo sempre che privano le persone dei diritti fondamentali umani. Ho quindi creato una coreografia per un evento a Roma: io stavo fermo per cinque minuti sul palco, mi spogliavo e mettevo il burqa. È stata una prima genesi di quello che poi sarebbe diventato il mio ragionamento sui diritti».

Un giorno, in un mercatino dell’usato, Samuele ha poi scovato un manichino rotto. «L’ho comprato pensando che magari un giorno ci sarebbe servito. – dice – Durante le prove per un altro spettacolo, era appena scoppiato il conflitto in Ucraina, abbiamo iniziato a creare quadri legati alla guerra. I miei ragazzi non sono solo ottimi ballerini. Sono artisti. Io mi occupo spesso solo della direzione generale artistica. Così abbiamo tirato fuori 15 minuti analizzando gli aspetti della guerra, riprendendo il pezzo col burqa e creando altri quadri su come i civili di una popolazione colpita reagiscono all’avvenimento».

Uno dei pezzi preferiti di Samuele rappresenta proprio la reazione dei credenti e dei fedeli. «È molto crudo. – spiega – Mi sono immaginato nei panni di una persona che ha sacrificato tutta la sua vita per Dio. Quando la sua vita viene devastata dalla guerra, si trova a farsi due domande. E si arrabbia con Dio, tanto da arrivare alla blasfemia e alla presa in giro della simbologia religiosa».

«Lo spettacolo – continua Samuele Barbetta – è pieno di queste variazioni sul tema. Non è solamente far vedere quanto sia brutta la guerra, c’è un dialogo continuo tra la guerra e l’umanità. Io interpreto la guerra come personaggio, un concetto astratto è schiacciato in una persona per permettere che il dialogo sia fisico. La guerra non è solo brutta, va accettata anche se sai che rovinerà tutto. Dov’è la morale o il lieto fine? Il finale arriva e devi farci i conti. È rischioso, lo spettacolo non finisce bene. Ma credo che la danza permetta di essere accessibili in modo diverso. Ed è bello che possa essere spiegata in modo così esplicito».

Samuele Barbetta e la danza come forma d’espressione

Il principio su cui si muove uno spettacolo come Andiamo (!) parte «da stimoli reali, come gli attentati a Kabul o la guerra in Ucraina», ma «può farti riflettere anche sui conflitti personali, quelli con se stessi e le persone». «È proprio questo il potere della danza. – ci dice il coreografo – Espande qualcosa di concreto e arriva in generale. Per me nessun’altra disciplina funziona in questo modo. Non dico che sia migliore, ha molti limiti, ma è valida per questo tipo di comunicazione».

Proprio parlando della compagnia De Anima, Samuele aggiunge poi che «l’acceleratore è molto premuto sulla narrativa, sulla storia. La sfida è proprio sopperire ai limiti della danza. Non è un film. Noi cerchiamo di capire come mettere insieme la potenza emotiva della danza con i suoi movimenti caldi e intensi e una narrazione logica. Bisogna calibrare i livelli, accettare che il ballerino è prima di tutto un attore. Come tale, si deve esprimere con una moltitudine di strumenti del corpo. Se dovessi fare un paragone azzardato, direi che la danza è più un Picasso che un Leonardo».

Infine, Samuele non può che omaggiare tre elementi fondamentali dello spettacolo. La scenografia curata da Gianlorenzo Casadio e Sofia Salomoni, «basata su L’Ultima Cena di Leonardo, con personaggi dietro una tavola molto lunga imbandita di grandi tovaglie, caraffe e fiori. La linea narrativa – spiega il ballerino – si basa sulla cena di una famiglia. È un po’ freudiana, perché mette in relazione quello che potrebbe essere il racconto di una famiglia a cena e il progredire di un conflitto mondiale». Anche i costumi, curati da Elena Di Giordani «sono importanti ma hanno un ruolo funzionale, sono di valore aggiunto». E infine la direzione della fotografia, affidata a Simone Sadocco, «è particolarmente importante. Quello che puoi fare in un teatro – conclude Samuele – non puoi farlo in una sala. La libertà d’espressione è massima».