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Asif Kapadia ha definito Amy Winehouse la classica “ragazza della porta accanto”, una come noi insomma, dalla vita certo più colorata e troppo breve.

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“Volevo farla scendere dal piedistallo e renderla più umana. – ha dichiarato il regista in una vecchia intervista – Non volevo che fosse paragonata a tutte quelle persone morte giovani. Volevo semplicemente che fosse se stessa”. E così Asif, che con Amy aveva in comune le strade e gli odori dei quartieri della North London, ha accettato l’offerta del produttore James Gay-Rees, iniziando un lungo periodo di raccolta di materiale inedito per dar vita a un ritratto unico della ragazza londinese, scomparsa a soli 27 anni.

Amy – il documentario presentato in anteprima a Cannes e che arriverà sugli schermi italiani il 15, 16 e 17 settembre, distribuito da Nexo Digital e da Good Films – ci mostra, come spiegato anche dal sottotitolo, la ragazza che si celava dietro il nome che per anni è circolato sulla bocca di tutti, rimbalzando sul web, occupando copertine. La ‘maledetta’ Amy faceva del resto parlare di sé, per gli atteggiamenti strafottenti e per la vita sregolata, fatta di eccessi e malumori, più che di musica. Prima di tutto ciò, prima della notorietà e del gossip fine a se stesso, c’era però una ragazza come tante, con un dono raro: una voce nata per il jazz, come la definisce Tony Bennett, e una capacità di trasformare in note e parole sentimenti di amarezza e di sconfitta, in cui migliaia di ascoltatori in tutto il mondo si identificheranno, trasformando un’apparente sconosciuta in una vera diva.

 

Sono i video dell’apparente sconosciuta, tuttavia, quelli che Asif ci mostra: una Amy giovanissima e un po’ più in carne che canta Happy Birthday insieme ai suoi amici, quella che faceva lunghi viaggi in macchina insieme al suo primo manager Nick Shymanksy per promuovere Frank, l’album di debutto, e quella che soffriva dietro le quinte nel momento in cui qualsiasi altro essere umano sul pianeta sarebbe stato al settimo cielo, quando Back to Black è arrivato in ogni casa, in ogni anfratto e in ogni stazione radiofonica, consacrando l’innegabile talento di una ragazza che non ha mai cercato la fama.

Eppure, se Amy Winehouse – l’artista – sorrideva ai fotografi durante i photocall, la donna Amy annegava soffocata dal clamore mediatico che la circondava. Per capire le ragioni di tutto ciò, bisogna fare qualche passo indietro, scoprire la ragazzina distrutta dal divorzio dei genitori e vittima di bulimia, una malattia che nessuno di coloro che la circondava ha saputo riconoscere. Non sono e non devono essere giustificazioni: lo diceva proprio Amy che lei alla fine non aveva mica subito abusi e che di figli con i genitori divorziati ne esistono a migliaia. Lei, inoltre, al contrario di tantissima gente, contro la depressione aveva la musica, un’àncora di salvezza che molti non possono permettersi.

È che quando arrivi sulla cresta dell’onda – ammettiamolo – la musica spesso conta meno del resto. Noi che un po’ frequentiamo il backstage di questo circo lo sappiamo: ci sono contratti da rispettare, scadenze, concerti, interviste, photo shoot, paparazzi, dicerie. Fa tutto parte della giostra su cui si sale più o meno volontariamente, permettendo che la propria vita – quella vera – venga fagocitata, in cambio di soldi e successo. Penserete che sia il sogno di chiunque, ma la verità è che no, non lo è, perché per convivere con tutto questo marasma bisogna volerlo davvero e bisogna avere il carattere giusto. Amy era una donna fragile, sempre in cerca dell’amore che spesso le veniva negato, e che si è ripresentato in forme malsane – guarda caso – quando sono arrivati denaro e gloria: da quello dei genitori che le ruotavano attorno come satelliti, gestendo patrimonio e attività artistiche, a quello dell’ex marito Blake Fielder-Civil, la persona forse più ‘martoriata’ da questo documentario, descritta come un’onda di negatività che ha travolto la vita di Amy nel momento più inopportuno.

Amy era veramente una di noi, una donna che come tante – troppe – si lega sempre all’uomo sbagliato e che è incapace di carpire la differenza tra affetto e opportunismo. Immaginatevi cosa voglia dire vivere queste debolezze in un contesto fasullo come quello dello show-business, dove sembra più facile fidarsi dei propri cari che degli sconosciuti che improvvisamente ti gravitano attorno fingendo interesse e dove i soldi ti mostrano la via più semplice per sfuggire a tutto, per dimenticare, entrando in un vortice di droghe e alcol, che addormentano i dubbi e i malesseri.

Eppure, la storia che racconta Asif Kapadia dà l’impressione che Amy potesse essere salvata: fosse stata meno sola, più amata, avrebbe potuto sopravvivere. Tante volte, in questo documentario, emergono le sue silenziose richieste di aiuto, il desiderio di abbandonare tutto e di tornare alle origini: niente concerti – diceva – voleva tornare a fare jazz, a cantare davanti a 20 persone, quella era la sua dimensione.

Forse, se qualcuno le avesse detto ‘Ma sì, molla tutto!’ – al posto di spingerla con forza su un palco a cui sentiva di non appartenere, come quello di Belgrado che ha segnato la sua personale e disarmante resa definitiva – ora avremmo potuto ascoltarla in un piccolo locale londinese, accompagnata da una jazz band con cui sognava di collaborare. Forse avrebbe persino cambiato idea sul fatto che l’amore è una partita persa, come troppo spesso cantava, inconsciamente consapevole di quanto troppo poco riceveva, in cambio di tutti i pezzi di sé che generosamente elargiva.