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6 anni senza Amy Winehouse, anima fragile della musica soul

Restano indimenticabili le immagini che il 23 luglio del 2011 venivano trasmesse dalla casa al numero 30 di Camden Square: in una stanza di quella casa, nel suo letto, venne infatti ritrovato il corpo senza vita di Amy Winehouse.

Giovanissima, piena di talento ma inspiegabilmente ‘maledetta’: era un’anima fragile la piccola grande Amy, figlia di un successo enorme arrivato quasi inatteso, scoppiato nel 2003 con l’album Frank e definitivamente consacrato, nel 2007, dal secondo album Back to Black.

Un capolavoro osannato da pubblico e critica, valso a Amy la vittoria di ben 5 Grammy Awards. Penserete che non serviva null’altro a Amy per essere felice. Invece, Amy era un vulcano, trattenuto a stento dalle regole ferree della discografia: gli schemi e i ritmi troppo frenetici l’hanno fatta cadere sempre più spesso nel vortice di alcol, droga e problemi alimentari.

Sono celebri le sue ‘cadute’ durante i live, le espressioni di malumore, di stanchezza. Non voleva essere una star Amy Winehouse, voleva solo cantare a suo modo, davanti a poche persone (ma buone). Pare che il suo genio – che l’ha resa la ‘fondatrice’ del cosiddetto soul bianco – sia stato per lei croce e delizia: e quando alla creatività si accompagna la pretesa, anche le stelle più brillanti finiscono per spegnersi.

Purtroppo per noi, che avremmo potuto avere ancora tantissima musica black da ascoltare e una voce magica per sognare. Purtroppo per Amy, alla fine l’unica vera vittima di se stessa, imprigionata in un riflesso che forse troppo spesso non corrispondeva a ciò che sentiva di essere.