Ai microfoni di Luca Casadei, Luchè mostra la sua anima tormentata segnata da un’infanzia vissuta nei difficili quartieri di Napoli, racconta il suo amore per la musica e in particolare per il rap, dagli inizi con il gruppo Co’Sang fino alla carriera da solista commentando anche il discusso dissing avuto con Salmo.

L’ospite della nuova attesa puntata del podcast di successo One More Time (OnePodcast) di Luca Casadei è il noto Luca Imprudente, tra i rapper partenopei più ascoltati d’Italia e meglio conosciuto con il nome d’arte Luchè. Disponibile sull’app di OnePodcast e su tutte le piattaforme di streaming audio. 

Ai microfoni di Luca Casadei, Luchè mostra la sua anima tormentata segnata da un’infanzia vissuta nei difficili quartieri di Napoli, racconta il suo amore per la musica e in particolare per il rap, dagli inizi con il gruppo Co’Sang fino alla carriera da solista commentando anche il discusso dissing avuto con Salmo che ha animato e incattivito il web e le fanbase. E ancora il faticoso rapporto con la gestione dell’ansia, con le donne e la paura della solitudine, difficoltà che condizionano spesso le sue scelte.

Luchè: «Il mio primo omicidio l’ho visto a 9 anni»

Un’infanzia complicata vissuta nelle periferie di Napoli e segnata anche dalla separazione dei suoi genitori. «Sono cresciuto nel quartiere Marianella, vicino Secondigliano, che ai tempi era tutta campagna. Si stavano costruendo i primi palazzi, non si sapeva che sarebbe diventato la periferia nota per i motivi che tutti conoscono. I miei sono persone di cultura, sono degli insegnanti, mia madre ha preso anche una seconda laurea come medico. Questa è stata la mia fortuna perché sono cresciuto negli anni della ferocia della periferia napoletana. Sono stato un bambino estremamente difficile da controllare, ero esuberante. I miei genitori non hanno avuto un rapporto bello tra loro; infatti, poi si sono separati quando avevo 14/15 anni».

Crescendo ha assistito a pericolose vicende che sono rimaste indelebili nella sua memoria. «Inizio a frequentare i ragazzi del quartiere. Ho iniziato a vivere delle cose che mi hanno scioccato, cose che dentro di me suscitavano un misto di emozioni, da una parte mi rendevano orgoglioso e dall’altra mi sembravano estreme. Io facevo parte della dinamica, non giudicavo, partecipavo con la presenza. Il mio primo omicidio l’ho visto a 9 anni, non ho provato niente. C’era questa folla enorme intorno a questo bar, questa lunga striscia di sangue che andava da dietro il bancone della cassa fino al marciapiede».

E aggiunge: «Una volta fui testimone di un agguato, eravamo là a parlare e si sentirono degli spari, vidi questo motorino che correva contromano e questo ragazzo che piangeva, mi ricordo che c’erano un centinaio di teenager che correvano tutti verso la stessa direzione e ci fermammo a cerchio intorno a questa persona a terra e da lì nacque la mia urgenza di raccontare nel rap queste cose. Dissi Com’è possibile che questi ragazzini di 12/13 anni devono vedere una cosa del genere. Com’è possibile che sia così estrema la nostra realtà?».

Una pistola puntata in testa e la passione per la musica

L’aver vissuto una situazione estrema in prima persona.

Luchè racconta: «Avevo 18 anni. Questo ragazzo mi caricò la pistola in testa, però non sparò. Litigammo per una cosa futile. Non andammo via, ero in macchina con degli amici e poi loro tornarono, erano andati a prendere evidentemente la pistola, quando ci vide ci tagliò la strada e noi fummo costretti a frenare. Noi provammo a scendere ma con dei calci ci chiusero di nuovo in macchina e con il manico della pistola mi ruppe tutto il vetro addosso, avevo pezzi di vetro ovunque e mi caricò la pistola in testa, però non mi sparò».

«Da lì – aggiunge – sono diventato più cattivo, perché una settimana dopo lo andammo a prendere con dei ragazzi che erano armati, eravamo sotto al portone suo e lui in maniera furba salì sul terrazzo e scese dall’altra parte del complesso e quindi ci prese da dietro e fortunatamente per lui, dopo una discussione accesa la cosa finì là. La cosa che mi colpì è che una delle persone che era venuta con noi lo guardò e gli disse la prossima volta spara».

La forte passione di Luchè per la musica fin da bambino, l’incontro con Ntò e la nascita del gruppo Co’Sang: «Volevo diventare un rapper. A 13/14 dissi a mia madre Io sarò un cantante un giorno. Una fortuna ho avuto nella vita, quella di nascere sapendo quello che volevo fare. Inizio a scrivere, mi divertivo. Conosco Antonio (noto con il nome d’arte Ntò) che abitava di fronte a me, con cui poi fondo il gruppo Co’Sang. Noi volevamo essere più real e abbiamo scelto i nostri nomi detti in dialetto. Il primo disco è uscito che io avevo 24/25 anni, in maniera indipendente. Mi costruì da solo a casa una cabina di legno con la spugna, avevamo un microfono e un computer. Ho mixato tutto io da solo».

Luchè: l’inizio del successo

Le prime pubblicazioni e uno stile originale che li porta ad affermarsi come promotori della scena rap napoletana: «Il nostro singolo di successo, che si chiama Int’o rione, inizia a girare parecchio nell’underground ed è stato il pezzo che ci ha dato poi quella visibilità che ci portò alla ribalta nel 2004. Ai tempi era solo passione, io dentro di me sapevo che prima o poi qualcosa sarebbe successo. Ero convinto che quel pezzo là avrebbe cambiato un po’ lo stile della musica napoletana».

«Cosciente del fatto che nessuno aveva fatto finora un pezzo che parlasse di strada con lo stesso linguaggio in cui parlavano i ragazzi in strada. Mi sono convinto che quel brano là sarebbe diventato il manifesto di tutte le strade di Napoli. Noi raccontavamo la periferia di Napoli, con tutti i suoi problemi e le sue storie. Nel 2005, proprio quando esce il nostro disco, scatta questa grossa faida di criminalità organizzata dove si uccidono due/tre persone in media al giorno per almeno due/tre mesi, c’è il coprifuoco, ognuno di noi perde degli amici, e noi ci troviamo ad essere la colonna sonora di quei momenti là».

I primi concerti e le collaborazioni: «Escono tanti articoli che ci portano attenzione mediatica. I primi anni non guadagnavamo ancora. Poi andammo a fare una data in provincia di Salerno, c’erano dalle 3 mila alle 4 mila persone e iniziammo a guadagnare qualcosa di più. Poi facciamo un pezzo con Marra che si chiama Se la scelta fosse mia, nel 2009, fu uno dei primi in italiano su scala nazionale, divenne una hit e iniziammo a suonare anche fuori».

La vita a Londra

Dopo un periodo di lavoro come ambulante, a 19 anni decide di andare a Londra per dare una svolta alla propria vita e inizia a lavorare per finanziarsi nella musica: «mi ero stancato di vivere in un posto così degradato, dove c’era solo criminalità, sono sempre stato una persona con tanti sogni e mi stava proprio stretta quella realtà, però ne ero molto orgoglioso perché io e Antonio soprattutto in quegli anni, essendo coscienti di quanto fosse estremo il nostro contesto sociale, lo volevamo raccontare, lo volevamo proprio urlare a tutta la Nazione soprattutto perché poi ci innamorammo del rap attraverso cui si denunciava il degrado e le difficoltà afroamericane e noi, con le dovute distanze e differenze, sentivamo di vivere le stesse cose».

E aggiunge: «il primo anno ho lavorato in un ristorante. Poi un amico mi introduce in un ambiente di solo napoletani che avevamo il loro business di vendere vestiti che arrivavano dalla Cina come se fossero le nuove collezioni, fingendoti rappresentante. Con i soldi che guadagnavo mi finanziavo la musica in Italia».

La separazione dei Co’sang

Nel 2012 Luchè si separa da Ntò e i Co’Sang si sciolgono: «Non andiamo più d’accordo da un punto di vista personale. Visioni diverse, stili di vita diversi. Non ho più rancore, resta la collaborazione più importante che abbia mai fatto, la pagina più importante per me, per lui e, penso, per molti fan del rap italiano. Quando ci siamo separati è stato durissimo, è stato come un nuovo inizio, però forzato. Diciamo che abbiamo deciso insieme, il pubblico poi ha dato la colpa a me perché forse io sono sempre stato quello più outspoken e stravagante. Sono stato, e forse ancora oggi lo sono, tra i rapper italiani più odiati online. Ho vissuto degli anni molto duri dove molto spesso ho pensato anche di smettere ma poi è ritornata dentro di me quella grinta che ho sempre avuto e riparto a lottare».

Dopo la rottura che l’ha segnato emotivamente, torna a Londra e decide di aprire una pizzeria con un amico: «Il mio obiettivo era quello di pagare l’affitto di casa, lo staff e di poter mangiare. L’importante era sopravvivere. Ho avuto la fortuna di conoscere una persona che mi ha aiutato a capire come controllare le entrate e le uscite con i conti settimanali. All’inizio non guadagnavamo, poi con il tempo abbiamo aperto un’altra pizzeria a New York e una hamburgeria a Londra. Oggi faccio ancora l’imprenditore ma non più nella ristorazione perché è troppo stressante».

Il successo con Gomorra

Nel frattempo, continua a fare musica e compone due dischi da solista e raggiunge successo anche con Gomorra: «Decido di mettere il secondo disco in free download ed entro a far parte della label di Marra, 25mila persone scaricano il mio disco e riprendo a suonare. Decido poi di fare dei pezzi anche in napoletano, un ritorno alle origini e sono quelli i pezzi che mi rilanciano ancora di più. Nel 2015 faccio O’ Primmo Ammore che viene preso da Gomorra e diventa una delle mie hit. Io mi limitai a mettere un post dove dicevo che la sera sarebbe successo qualcosa di importante nella puntata di Gomorra, però la gente non lo sapeva che si trattava del mio nuovo singolo.

La canzone viene ascoltata due volte nella stessa puntata: la prima è durante una scena, mi pare in cucina, si vedeva sto video nella televisione messa sul frigorifero, dove si sentiva il pezzo proprio a bassissimo volume, ma gli attori ci parlavano sopra. Quindi io dissi “questa è la scena dove si sentiva il pezzo?” Cioè, io aspettavo questo momento da una vita, di lanciare il singolo in Gomorra ed è questa la scena? Il pezzo non si sente, è in sottofondo e mi incazzo come un’animale! Pochi minuti dopo, riparte un’altra scena, proprio con l’inizio del mio brano, che dura quasi per tutto il brano. Quindi praticamente ci sono le immagini e la mia voce, senza il dialogo, Solo immagini con il pezzo che va. Da lì arriva il successo, sono stato il primo artista da rapper a fare i Palazzetti da 8mila paganti».

Sull’amore e le sue difficoltà nel rapportarsi con le donne: «Per me la donna è la definizione di bellezza in tutte le sue sfumature. Ha un ruolo molto importante nella mia vita, poi da là a gestirlo è tutta un’altra cosa. Il rapporto con le donne è sempre stato conflittuale, perché mi sono sempre innamorato di persone che avevano lo stesso disagio, gli stessi traumi, le stesse ferite che ho io e credevo che quello fosse il mio habitat. Ho sempre creduto che tutto fosse più intenso se difficile o fosse più vero se difficile. Con il tempo ho capito che non è così, che io merito serenità e stabilità e che l’amore può essere anche quello».

Il lockdown e le fragilità: Luchè racconta la paura della solitudine

Una forte paura della solitudine nata durante il lockdown. «Durante il covid io non riuscivo ad affrontare la notte, quando calava il buio dovevo andare a letto. Mi sono trovato da solo con le mie paranoie, la pressione di fare un disco che doveva andare ancora meglio di prima. Io sono estremamente duro con me stesso. Ho iniziato ad avere dei problemi a stare da solo con i miei pensieri, soprattutto la sera andavo a dormire per evitare di vivere. Ho vissuto momenti di solitudine molto forti. È una solitudine che, se non la sai gestire, può avere un riflesso negativo sulla psiche».

La gestione dell’ansia che spesso tormenta la sua quotidianità: «Io soffro di ansia. Ho dei breakdown nervosi. Una sensazione costante di sentirsi in ritardo, una corsa contro il tempo. Mi alzo e per me è già tardi e quindi vivo tutto in ansia. Non riesco neanche ad allenarmi con la musica perché inizio a pensare e sono già in studio con la testa. Soffro di attacchi di panico ancora oggi, ho imparato a gestirli con il respiro. Non riesco a stare dietro ai miei pensieri, anche quando riposo non sono mai rilassato».

Il dissing Luchè-Salmo

Sul dissing con Salmo afferma: «Queste faide fanno male, sono sicuro che non sia stata una cosa piacevole neanche per lui. Certo danno una botta di visibilità e promozione, però portano tantissima negatività. Quindi cosa resta? Resta l’offesa, lo sfottò.

Oggi gli stringerei la mano, senza affrontare il discorso, perché per me c’è poco da dire. Comunque quello che è stato detto resta, ognuno rimane della propria idea. Non sarei pronto ad avere un rapporto di amicizia con una persona che si è permessa di dire delle cose su di me, come io di lui, ma la lezione per me è stata che si è trattato solo di intrattenimento per il pubblico, una situazione che non ha fatto altro che dividere le masse. Non è stato apprezzato questo sforzo artistico mio e suo, è nata solamente questa grande negatività fra le fanbase che non hanno fatto altro che insultarsi. Ho capito che in questo momento non mi serve e non vorrei mai più ritrovarmi in una situazione del genere. Sono scaturite offese infantili supportante da commenti ancora più infantili».